Non chiamiamolo “carcere duro”

Il Garante nazionale delle persone private della libertà personale ha presentato un rapporto sul 41-bis, mettendo in luce i molti aspetti problematici che interessano questo regime

Associazione Antigone
6 min readApr 12, 2023

di Maria Serena Costantini

Lo scorso 3 aprile, il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha presentato il rapporto sul regime detentivo speciale ex art. 41 bis co. 2 dell’Ordinamento Penitenziario. Si tratta del secondo rapporto su questo tema dall’istituzione del Garante.
La questione è oggi al centro di un dibattito intenso, aperto sia a livello istituzionale che di opinione pubblica, che ha avuto sicuramente avvio a partire dal caso Cospito. Anche Antigone ha pubblicato un dossier sul caso Cospito e una ricerca sul regime 41 bis presentata in occasione di un recente convegno.

Il regime detentivo speciale è stato introdotto con il d.l. n. 306 del 1992, all’indomani delle stragi mafiose di quell’anno, come misura emergenziale di contrasto alla criminalità organizzata. Questa norma si inserisce dunque in un contesto di estrema necessità ed urgenza, ma a seguito di interventi di adeguamento da parte del legislatore è divenuto con gli anni strumento ineludibile di lotta alla mafia. Il regime speciale si applica infatti agli autori dei reati in materia di criminalità organizzata e in particolare a quelli nei confronti dei quali sia stata accertata la permanenza dei collegamenti con le associazioni di appartenenza ed un ruolo di direzione e organizzazione all’interno di queste. Il regime speciale è applicato su decisione del Ministero della Giustizia con decreto motivato, dura 4 anni e può essere prorogato di volta in volta per ulteriori 2 anni, qualora ne permangano i presupposti.

L’applicazione di tale regime detentivo è indipendente dalla pena e dalla durata di essa: è piuttosto una norma che regola la vita all’interno del carcere, comportando una serie di limitazioni dei contatti con l’esterno, in modo da interrompere ogni legame del detenuto con l’organizzazione criminale di cui ricopre un ruolo di vertice, per evitare che “continui a comandare” dall’interno.

Per comprendere le problematiche attuali sull’applicazione di questo regime è opportuno partire dai numeri.

I dati contenuti nel rapporto sono stati raccolti ed elaborati all’esito della visita di tutte le sezioni a regime detentivo speciale ex art. 41 bis co. 2 da parte del Garante Nazionale, uno degli organi a cui è consentito l’accesso nelle sezioni di 41 bis, ma unico a poter avere colloqui riservati con i detenuti ivi ristretti, laddove i Garanti territoriali sono sottoposti invece a controllo visivo e auditivo.

Al 27 febbraio 2023 i detenuti al 41 bis sono 740, di cui 12 donne, distribuiti nei 12 istituti penitenziari italiani che ospitano una sezione dedicata a tale regime detentivo. Un numero, questo, che resta più o meno costante, non solo rispetto ai dati del precedente rapporto, pubblicato dal Garante nel febbraio del 2019, ma in generale nell’ultimo decennio: dal 2012, quando se ne contavano 699, il numero più alto si è registrato nel 2020, con 756 detenuti. Quello che emerge è che le variazioni numeriche sono minime, con un totale sempre attestato attorno alle 700 persone. Questo dato, secondo il Garante, è già di per sé sintomatico di una prima criticità: appare infatti chiaro che il sistema di applicazione del regime speciale si sia nel tempo cristallizzato, lasciando trapelare un certo automatismo nel rinnovo: la stragrande maggioranza dei decreti di applicazione viene infatti confermata, facendo sì che chi si è visto imporre il regime in prima battuta difficilmente se lo vede revocato.

Il Garante Nazionale, pertanto, ritiene che il numero delle persone attualmente soggette al regime previsto dall’articolo 41 bis co. 2 O.P. debba essere oggetto di una profonda revisione; ogni provvedimento di proroga delle misure dovrebbe infatti recare una autonoma e congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire: “non possono ammettersi semplici proroghe immotivate del regime differenziato, né motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte”, afferma Mauro Palma, presidente del Collegio del Garante Nazionale.

Un dato che rende ancor più evidente questa problematica è quello che riguarda la posizione giuridica delle persone attualmente sottoposte al regime speciale: secondo i dati del Garante, infatti, dei 740 detenuti totali, 613 hanno una condanna definitiva, 121 sono in misura cautelare e, infine, 6 sono internati in misura di sicurezza definita “Casa di lavoro”. Quanto alle pene definitive, solo 204 persone, a dispetto di quanto si possa immaginare a livello di opinione pubblica, stanno scontando la pena dell’ergastolo; 250 persone, invece, sono condannate a pena temporanea. Quest’ultimo dato, a parere del Garante, evidenzia come un numero consistente di persone — 28 nello scorso anno — rimanga sottoposto al regime speciale fino all’ultimo giorno di esecuzione della propria pena temporanea. Tale situazione è ritenuta particolarmente critica, non solo perché foriera di grosse problematiche dal punto di vista del reinserimento all’esterno dell’ex detenuto, che fino al giorno prima della sua liberazione si trovava in un contesto di profondo isolamento sociale, ma anche perché mette in dubbio l’efficacia e la ratio dell’applicazione della misura medesima: se la funzione precipua del 41 bis è quella di interrompere i legami con l’organizzazione criminale di cui la persona ristretta fa parte, non appare ragionevole rinnovare la misura nell’ultimo biennio dell’espiazione della pena, durante il quale i contatti con l’associazione dovrebbero già essere interrotti.

Lo strumento del regime detentivo speciale si è rivelato funzionale e fondamentale per la lotta alla criminalità organizzata nel nostro Paese, ma è tale specifica ratio che dovrebbe orientare le decisioni sulla sua applicazione, e non la volontà di attribuire una maggiore afflittività alla pena. Non bisogna infatti dimenticare che, anche per quanto riguarda il regime speciale, la funzione della pena deve essere quella di tendere alla rieducazione del condannato, come affermato dai principi costituzionali. L’elemento trattamentale non deve dunque essere accantonato in nome della necessità di interruzione dei contatti con l’esterno.

Per tali motivi sono problematiche, secondo quanto affermato dal Garante, anche alcune regole interne del regime speciale: le numerose circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria volte a regolare ogni aspetto della vita quotidiana dei detenuti ristretti in regime di 41 bis, dal diametro delle pentole che possono utilizzare nelle celle al numero degli alimenti freschi che possono acquistare e consumare, risultano inutilmente afflittive o almeno eccessivamente specifiche su alcune questioni che non hanno nulla a che fare con l’interruzione dei legami con l’organizzazione criminale.

Il Garante ha dunque chiarito che è questa la criticità attuale del sistema del 41 bis: si ricorda infatti che anche le censure internazionali che sono intervenute negli anni non hanno mai riguardato la norma in quanto tale, bensì le singole misure e in particolare l’automatismo nel rinnovo dei decreti di applicazione che è prassi piuttosto diffusa.

Ciò che occorre, dunque, non è l’abolizione del sistema, quanto piuttosto un recupero della sua vera finalità: solo così è possibile, dice il Garante, contrastare quelle procedure e regole che sottendono ad una funzione più afflittiva che rieducativa della pena.

Il rapporto si chiude, infine, con una serie di raccomandazioni che il Garante rivolge alle istituzioni, perché si intraprenda la strada di una rivalorizzazione della ratio iniziale della norma: innanzitutto il Garante insiste sulla necessità di interrompere il sistema automatico dei rinnovi, imponendo il divieto di rinnovo della misura nell’ultimo biennio di pena; inoltre, si invita a valorizzare elementi primari del trattamento, come l’istruzione e l’alfabetizzazione, nell’ottica del recupero della funzione rieducativa cui devono tendere tutte le pene, a prescindere dal regime in cui devono essere espiate.

Si affronta anche il tema degli ambienti di detenzione e degli spazi dedicati alla socialità, i quali devono necessariamente essere oggetto di maggiore cura e attenzione, dal momento che la socialità stessa è già molto ridotta dalle regole del regime speciale, ma questo non può di certo significare un totale scollamento dal mondo esterno.

Infine, una raccomandazione viene rivolta non tanto alle istituzioni, quanto alla stampa e all’opinione pubblica tutta: non chiamiamolo “carcere duro”, perché questo concetto implica in sé la possibilità che alla privazione della libertà possa essere aggiunto qualcos’altro a fini maggiormente punitivi, di deterrenza o di implicito incoraggiamento alla collaborazione. Fini questi — chiosa il Garante — che porrebbero l’istituto certamente al di fuori del perimetro costituzionale.

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