Nel contratto tra Lega e M5S vendetta al posto di giustizia

Associazione Antigone
4 min readJun 14, 2018

di Giuseppe Mosconi, Ordinario di sociologia del Diritto e Presidente di Antigone Veneto*

Due aspetti particolarmente evidenti balzano all’occhio a una prima lettura del capitolo 12 del “Contratto di governo” tra lega e 5 Stelle, in materia di giustizia: la retorica secondo cui pene più severe e più “certe” garantiscono più sicurezza per i cittadini; la necessità che il carcere diventi più duramente punitivo, perché chi sbaglia deve effettivamente pagare.

L’inasprimento di pene viene invocato non solo per la microcriminalità diffusa (furto, scippo, truffa, rapina), per i quali l’allarme sociale è facilmente evocabile, ma anche per reati (a sfondo sessuale, crimini ambientali) per i quali l’efficacia dello strumento penale è da sempre messo in discussione anche tra le vittime dirette degli stessi, trattandosi di problematiche più adeguatamente contrastabili con altri mezzi.

Ma soprattutto una distorta interpretazione del principio della “certezza della pena” induce a ritenere essenziale “riformare i provvedimenti emanati nel corso della legislatura precedente tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari, a totale discapito della sicurezza della collettività”.

Segue un’improbabile e approssimativa enumerazione degli stessi, il cui unico senso è quello di affermare la totale espiazione della pena in regime detentivo, senza alcuna forma di abbreviazione o di alternatività. Infatti il concetto emerge più nettamente qualche paragrafo dopo, in cui, in nome della solita “maggior tutela della sicurezza dei cittadini” si afferma la necessità di “riscrivere la riforma dell’ordinamento penitenziario”, con particolare attenzione alla “rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali” e ciò al fine di “garantire l’effettività del principio di rieducazione della pena”.

Dunque non solo si invoca la cancellazione di tutte le misure recentemente introdotte per far fronte al sovraffollamento, che ci ha meritato la condanna della Corte Europea dei Diritti Umani, per il carattere disumano e degradante delle nostre carceri, (misure peraltro rivelatesi gravemente inefficaci, tanto che la popolazione reclusa sta decisamente tornando a crescere), ma si arriva a pretendere la cancellazione delle misure alternative, già introdotte nella riforma del 1975, mirate a implementare fattivamente un percorso rieducativo finalizzato a una effettiva reintegrazione sociale, con la consapevolezza che la pena detentiva in sé è totalmente insufficiente, se non controproducente, a questo fine.

Infatti da almeno una decina d’anni si è dimostrato il crollo della recidiva per chi gode di misure premiali alternative al carcere, con effetti ovvi di maggiore sicurezza, contro il 70% di recidiva di chi espia la pena fino in fondo. Così i nostri “innovatori” vogliono cancellare oltre quarant’anni di riforme in questo campo, ansiosi solo di agitare luoghi comuni che, in contrasto con evidenza e conoscenza, parlano alla pancia della pubblica opinione, per incrementare il consenso. Ma se è ovvio che tali indicazioni porteranno a un drammatico incremento della popolazione reclusa e al riesplodere del sovraffollamento, il rimedio c’è: costruire nuove carceri; ignorando che da sempre tutto lo spazio utilizzabile nelle strutture, per quanto incrementato, si riempie fino alla saturazione secondo il noto “effetto spugna”.

Non solo più carceri, ma soprattutto un carcere più duro, a partire dalla cancellazione dal regime aperto della “sorveglianza dinamica”, quello che ha aperto spazi di socialità e implementazione di attività formative, disincentivando atteggiamenti passivizzanti e regressivi, come restare tutto il giorno a giacere in cella, imbottirsi di psicofarmaci, per non parlare di autolesionismo. E poi la chiusura dei settori “a custodia attenuata”, quelli che consentono ai tossicodipendenti di intraprendere percorsi terapeutici di recupero; un regime di 41bis, per i reati più gravi, ancora più rigido e irreversibile, con totale ignoranza delle istanze rieducative cui ogni detenuto ha costituzionalmente diritto.

Ma il “fiele” che sottende queste indicazioni esplode con tutta evidenza su due punti: l’abbassamento dell’età imputabile per i minori, insieme all’estensione effettiva, per gli stessi, dell’incarcerazione, con cancellazione di trent’anni di riforme in campo minorile, spazio proficuo e promettente di elaborazioni teoriche e pratiche sperimentali, decisamente innovative.

Per arrivare in un gran finale, che per la verità è significativamente posto all’inizio del capitolo, all’estensione del principio della “legittima difesa” finalizzata a rimuovere gli “elementi di incertezza” riferiti al principio di proporzionalità tra difesa e offesa.

A dire che se un estraneo mi entra anche solo in cortile sono legittimato a sparargli, dove il valore della proprietà è evidentemente più alto di quello della vita umana: è una vera cartina di tornasole della cultura che sottende tutte queste proposte: quella della vendetta, del giustizia come mera ritorsione, fino a poter farsi giustizia da soli, della fiducia, tutta da acclarare, nel potenziale deterrente della minaccia penale.

È da chiedersi come un governo che si vuole “del cambiamento”, a tutela dei cittadini più colpiti e depauperati dalle politiche precedenti, possa concepire di sottoporre a un simile tritacarne proprio le fasce più vulnerabili e deprivate della società, che affollano le nostre carceri, fino a regredire a livelli premoderni.

Se l’avvocato Conte si promette difensore di tutti gli italiani, se il presidente Mattarella ribadisce la centralità della Costituzione, lo dimostrino, a partire dall’attenzione verso le fasce più marginali. Una buona occasione data a noi tutti per riflettere su significati e valori delle scelte auspicabili.

Articolo pubblicato originariamente su “Il mattino di Padova” il 14 giugno 2018

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