Morire in carcere, morire di carcere

Associazione Antigone
10 min readJan 22, 2025

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I numeri relativi alle morti in carcere inevitabilmente scandalizzano e allarmano. Sono però anche numeri che rivelano che quello dei suicidi è un problema sistemico legato al carcere e rendono impossibile ignorare la violenza dell’esperienza detentiva.

di Laura Calconi

Il 2024 è stato l’anno che ha registrato il numero di suicidi e di morti in carcere più alto di sempre. Secondo i dati raccolti dall’osservatorio di Ristretti Orizzonti, dei 245 decessi registrati all’interno degli istituti penitenziari italiani, il numero di suicidi è stato pari a 89. A questi si aggiunge il suicidio di Ousmane Sylla, il ventiduenne che si è tolto la vita lo scorso febbraio, pochi giorni dopo il suo ingresso al Cpr di Ponte Galeria.

Le discrepanze sui numeri delle morti in carcere

Un aspetto preliminare all’analisi statistica del fenomeno dei suicidi è la constatazione che i dati relativi alle morti in carcere appaiono confusi e incerti. I numeri forniti da Ristretti Orizzonti si scontrano infatti con quelli ufficiali forniti dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Lo ha fatto notare il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti al Ministro della Giustizia in un’interrogazione parlamentare presentata lo scorso dicembre, della quale si rimane in attesa di risposta.

Il documento pubblicato dal Garante nazionale, aggiornato al 31 dicembre 2024, registra un totale di 83 casi di suicidio avvenuti in carcere, con un disallineamento di 6 unità rispetto al dato fornito da Ristretti Orizzonti. Da un’analisi comparativa dei singoli episodi(1) riportati dalle due fonti, tale discrepanza deriva dal fatto che alcuni dei casi classificati dal dossier di Ristretti Orizzonti come suicidi, nello studio pubblicato dal Garante nazionale sono invece fatti rientrare nella casistica dei “decessi con causa da accertare”, perché ancora al vaglio della magistratura. Il Garante dei detenuti della regione Lazio, Stefano Anastasia, spiega che queste differenze derivano dalla diversa modalità di raccolta e analisi dei dati: la prima meno “ufficiale” e derivante dalla raccolta di testimonianze dirette, la seconda più formalizzata e allineata ai tempi e agli esiti delle verifiche medico-legali operate dagli organi competenti istituzionalmente.

Ma il problema della disomogeneità nella raccolta dati è risalente nel tempo e avrebbe a oggetto non solo i casi di suicidio, ma anche le morti “per altre cause”. Il curatore del dossier sulle morti in carcere di Ristretti Orizzonti, Francesco Morelli, solleva anzitutto la questione delle persone detenute che sono morte dopo il ricovero in ospedale. Si tratta di episodi che nella maggioranza dei casi non vengono ricompresi nelle statistiche relative alle morti in carcere fornite dal Garante nazionale e rispetto ai quali, in generale, appare opaco il criterio per la loro esclusione o inclusione nelle statistiche ufficiali. Analizzando le serie storiche pubblicate sul sito del Ministero della giustizia, si notano poi delle discrepanze evidenti fra i dati del Dap e quelli del Garante nazionale dei detenuti, che fanno emergere come le serie storiche del Ministero sembrerebbero escludere dall’analisi le morti per cause “da accertare”.

Dati forniti dal Ministero della Giustizia (sezione statistica Dap):

Dati forniti dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale:

Prendendo a riferimento l’intervallo temporale 2015–2023, emerge come in 9 anni la differenza risulta pari a ben 227 persone, inspiegabilmente “scomparse” dai dati ufficiali. Sorge dunque spontaneo interrogarsi sull’esito dei dati relativi alle cause da accertare: una volta stabilita la causa del decesso, spesso anche a distanza di tempo, i dati dell’anno di riferimento della serie storica fornita dal Dap vengono di conseguenza modificati? Queste incongruenze sollecitano un urgente aggiornamento dei numeri che compaiono sul sito istituzionale, anche considerando il fatto che sono proprio le cifre del Ministero di Giustizia a essere comunicate al Consiglio d’Europa e agli altri organismi sovranazionali deputati al monitoraggio sullo stato delle carceri nei vari Paesi.

Il fenomeno dei suicidi in cifre

Nonostante i numeri siano viziati da un certo margine di imprecisione e incertezza, è possibile comunque darne una lettura a partire dal loro raggruppamento per categorie omogenee. Dall’analisi dei dati personali, si rileva che delle 89 persone morte suicide in carcere, due erano donne, una detenuta a Torino e una a Bologna. La fascia di età più rappresentata è stata quella tra i 26 e i 39 anni (36 persone), ma molti suicidi sono stati commessi da persone giovanissime, di età compresa tra i 18 e i 25 anni (15 persone). Disaggregando il dato per nazionalità, emerge che poco meno della metà delle persone erano di origine straniera (circa il 43%), provenienti da 15 diversi paesi (i più rappresentati: Marocco, Tunisia, Egitto, Albania). Implementando i dati raccolti da Ristretti Orizzonti con quelli pubblicati dal Garante Nazionale, risulta che almeno 20 persone erano senza fissa dimora (circa il 22%) e almeno 36 erano disoccupate (circa il 40%). Per quanto riguarda le posizioni giuridiche, sebbene la maggior parte di persone che si sono tolte la vita in carcere fossero state condannate in via definitiva, i dati rivelano che almeno 32 persone (circa il 36%) erano ancora in attesa di primo giudizio. Rispetto alla durata della permanenza presso l’istituto nel quale è avvenuto il suicidio, si nota come 45 persone (circa il 50%) si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 8 entro i primi 15 giorni e 6 entro i primi 5 giorni dall’ingresso. Osservando i dati relativi agli eventi critici emerge poi che più della metà delle persone (circa il 52%) erano coinvolte in altri eventi critici: molte avevano già precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio e alcune erano state sottoposte alla misura della grande sorveglianza(2) (di queste, 6 lo erano anche al momento del suicidio). Va infine evidenziato come le sezioni maggiormente interessate dal fenomeno suicidario sono state quelle a custodia chiusa, dove sono avvenuti circa il 73% dei casi.

Oltre al dato

Indipendentemente dalla loro accuratezza, sono cifre che scandalizzano, allarmano e soprattutto che rivelano che quello dei suicidi è un problema sistemico legato al carcere e che rendono impossibile ignorare la violenza dell’esperienza detentiva. A riprova della natura strutturale del fenomeno, il confronto con quanto accade al di fuori degli istituti penitenziari fa emergere un dato inequivocabile: in carcere la popolazione detenuta si suicida quasi quindici volte in più rispetto alla popolazione libera(3). Questa constatazione ci invita a riflettere e ci impone di mettere in correlazione i numeri relativi ai suicidi con l’ambiente in cui si verificano, per comprendere come e in quale misura lo spazio detentivo influenzi lo stato di salute delle persone che lo attraversano. Che il carcere produca sofferenza e generi solitudine è indubbio: in quanto “istituzione totale” all’interno della quale le identità individuali sono sottoposte a un processo di contrazione e svalutazione, si rivela un contesto favorevole a episodi di autolesionismo e suicidi, tentati e riusciti. Tuttavia, il ragionamento non può essere appiattito sulla perdita della speranza come unico fattore determinante rispetto alla scelta di togliersi la vita. Più che concentrarsi sull’individualità del gesto, è necessario rivolgere l’attenzione all’ambiente di detenzione e alle sue peculiari caratteristiche strutturali e organizzative.

Analizzando i dati statistici sui suicidi negli ultimi anni, si nota che i livelli raggiunti tra il 2010 e il 2012 sono seguiti da un sensibile calo tra il 2013 e il 2016, per poi risalire nel 2016 e crescere fino al giorno d’oggi. Mettendo in correlazione questo andamento con le condizioni di detenzione, emerge come a seguito della sentenza Torreggiani del 2013(4) vi sia stata una contestuale riduzione del tasso di sovraffollamento e del tasso di suicidi. Nel 2017, quando gli effetti della riforma hanno cominciato a perdere la loro iniziale portata, il numero è tornato a salire. Il tasso è ulteriormente cresciuto durante il periodo del Covid-19, quando i decreti e le circolari applicative disposte per arginare la diffusione hanno ridotto le occasioni di contatto con il mondo esterno e reso la marginalizzazione ancora più pregnante.

Questo trend fa innanzitutto intuire che sulle cifre riguardanti i suicidi in carcere influisce in modo significativo il forte sovraffollamento che caratterizza la gran parte degli istituti: l’analisi comparativa relativa agli eventi critici di maggiore rilievo, rivela infatti che all’aumentare del sovraffollamento si associa un incremento di quegli eventi che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali suicidi e tentativi di suicidio. Il sovraffollamento deteriora in maniera significativa le condizioni di vivibilità delle carceri italiane, alimentando un’insofferenza verso la detenzione tale che spesso non trova altri sbocchi che la commissione di atti dimostrativi di natura individuale. È bene sottolineare, inoltre, che sovraffollamento non vuol dire solo carenza di spazi, ma anche e soprattutto carenza di risorse per una popolazione detenuta in continua crescita. Risorse particolarmente necessarie per intercettare e prendere in carico le soggettività portatrici di maggiore fragilità. In secondo luogo, le oscillazioni del numero di suicidi degli ultimi anni dimostrano quanto pesi la crescente postura di chiusura del carcere verso le iniziative di ingresso della società civile e il passaggio quasi generalizzato dalle sezioni aperte alle sezioni chiuse. A tal proposito, è significativo rimarcare che oltre il 70% dei suicidi nell’anno passato è avvenuto nelle sezioni a custodia chiusa, a riprova di quanto l’isolamento sia nocivo per l’equilibrio psicologico delle persone detenute. Uscire dalla cella, vedere persone, essere coinvolti nelle attività fa bene alla salute, fisica e mentale, di chi si trova a dover affrontare un momento di detenzione. Non si deve inoltre trascurare che la fuoriuscita permette anche di far notare i segnali di allarme.

Se il carcere è un luogo in cui il rischio che si verifichi un suicidio è superiore rispetto all’esterno, tale differenza deve essere interpretata come un indicatore di malessere del sistema penitenziario nel suo insieme. Gli istituti penitenziari italiani, oltre ad essere sovraffollati (e in parte proprio in conseguenza di ciò), vivono una situazione di deficienze logistiche, di strumenti e tecnologie inadeguate e indietro rispetto ai tempi, di piante organiche carenti rispetto a tutte le figure professionali che operano al suo interno, di insufficienti opportunità lavorative, di studio, di svolgimento di attività. Ma il carcere è un luogo dannoso per la salute delle persone anche per il modo stesso in cui è impostata la vita detentiva, caratterizzata da una forte staticità e limitazione degli spazi personali, e per le condizioni strutturali in cui versano la maggior parte degli istituti italiani, caratterizzati da problemi di cattiva aerazione, edilizia fatiscente, alimentazione scadente, alte temperature in estate e basse temperature in inverno, condizioni igieniche scarse. Oltre l’insalubrità degli ambienti detentivi, la scarsa qualità e tempestività degli interventi diagnostici rendono l’accesso alle cure ancora più difficile rispetto al fuori.

Non si può infine trascurare il dato per cui, all’interno del carcere, la salute mentale è più vulnerabile rispetto alla società libera. In parte sono le stesse condizioni ambientali e strutturali del carcere a determinare il rischio di insorgenza di disturbi psicologici fra i detenuti. A questo si aggiunge il fatto che, in combinazione con le privazioni dell’ambiente carcerario, in carcere si troverebbe anche una vulnerabilità “importata” dalla società esterna: frequentemente le persone che incrociano il circuito detentivo si trovano infatti già prima del loro ingresso in una condizione di precarietà e di marginalità sociale che le rende portatrici a un altrettanto precario equilibrio mentale. Anche a causa della carenza di organico delle figure di supporto, come educatori, psicologi e psichiatri, il carcere si rivela del tutto inadeguato nell’affrontare la presa in carico dei soggetti più fragili e, per via di come la vita al suo interno è impostata, altro non fa che slatentizzare patologie pregresse.

Da questa situazione sembra estraniarsi l’agenda politica dei nostri governanti, focalizzata invece nell’imporre con il nuovo ddl “sicurezza” (attualmente in fase di discussione al Senato) un modello securitario basato sulla repressione che criminalizzarà le lotte sociali e trasformerà in reati comportamenti che hanno a che fare con la marginalità sociale e con le disuguaglianze economiche. All’aumento del novero dei reati corrisponderà inevitabilmente l’aumento delle persone detenute.

Preso atto che il carcere contiene in sé elementi strutturali che lo rendono un ambiente patogeno — e dunque preso atto della necessità ripensarlo in un percorso di trasformazione radicale del sistema penale e penitenziario — in questo clima repressivo sempre più preoccupante, è responsabilità collettiva fare pressione affinché il contrasto ai suicidi in carcere sia posto al centro del dibattito pubblico e si intervenga in maniera tempestiva sul tema della salute mentale delle persone detenute, adottando soluzioni concrete idonee a invertire nell’immediato questo trend.

NOTE:

(1) 18 aprile 2024: detenuto di 32 anni, morto nel carcere di Como. Indicato nel dossier Gnpl come “decesso per causa naturale”.
28 giugno 2024: detenuto di 24 anni, morto nel carcere di Frosinone. Indicato nel dossier Gnpl come caso da accertare.
7 luglio 2024: detenuto di 81 anni, morto nel carcere di Potenza. Indicato nel dossier Gnpl come caso da accertare.
15 novembre 2024: detenuto di 28 anni, morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Martino di Genova, dove sarebbe stato portato dopo aver tentato il suicidio nel carcere di Marassi. Indicato nel dossier Gnpl come caso da accertare.
30 novembre 2024: detenuto di 51 anni in attesa di giudizio nel carcere di Terni, si sarebbe suicidato all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia, dove era stato appena trasferito in regime di arresti domiciliari. Caso non citato nel dossier Gnpl.
29 dicembre 2024: detenuto di 27 anni, morto nel carcere di Piacenza. Caso non citato nel dossier Gnpl.

(2) Particolare regime di sorveglianza (introdotto dalla circolare n. 3233/5683, del 30 dicembre 1987) disposto per il controllo da parte del personale di polizia penitenziaria dei detenuti ritenuti a rischio suicidario.

(3) Secondo i dati ISTAT più aggiornati, il numero di suicidi in Italia nel 2021 era pari a 0,74 suicidi ogni 10.000 persone; nello stesso periodo di riferimento, il tasso di suicidi in carcere è stato pari a 10,6 persone ogni 10.000 persone detenute.

(4) Con la sentenza dell’8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della CEDU, ritenendo che le condizioni di vita dei detenuti integravano i requisiti necessari per la sottoposizione degli stessi a trattamenti inumani e degradanti. La Corte invitava l’Italia a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, rappresentante un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano” incompatibile con la Convenzione, esortando ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà e tramite una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere.

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