Mancano i braccialetti elettronici: si resta in carcere

Questi dispositivi, che avrebbero dovuto rappresentare un’opportunità di uscita dal carcere si sono trasformati in un supplemento afflittivo alla misura degli arresti domiciliari. Ma, anche per questo scopo il loro utilizzo, per diversi motivi, è ancora scarso.

Associazione Antigone
6 min readJul 16, 2018

di Perla Arianna Allegri

Negli ultimi giorni si è riaccesa la polemica sull’indisponibilità dei dispositivi elettronici per scontare gli arresti domiciliari presso la propria abitazione. A Torino, il giudice per le indagini preliminari concede gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico a Nicolò Mirandola, giovane attivista accusato di concorso morale in resistenza a pubblico ufficiale durante il corteo di protesta del 22 febbraio 2018 contro il comizio di Casapound. Il provvedimento porta la data del 29 marzo, ma i dispositivi non sono disponibili e la detenzione si protrae fino al 5 luglio quando, dopo l’avvio della protesta e dello sciopero della fame da parte della mamma del giovane detenuto, finalmente un dispositivo si libera e Nicolò può scontare i domiciliari presso la sua residenza. Ad oggi si calcola che sono circa 2.000 i “braccialetti elettronici” in funzione sul territorio nazionale a fronte delle 10 mila persone in carcere in attesa di una condanna definitiva.

Non è la prima polemica che si leva nei confronti della gestione dei braccialetti elettronici, introdotti nel nostro ordinamento nel 2000, operativi però — e già terminati — solo negli ultimissimi anni. E’ infatti sul finire degli anni Novanta che il dispositivo fa la prima comparsa all’interno del contesto italiano per volere del legislatore, sull’onda dell’interesse che si era diffuso nei Paesi europei, circa il nuovo fenomeno della sorveglianza elettronica, come strumento (nelle intenzioni) meno afflittivo del carcere e in grado di arginare il sovraffollamento penitenziario e, allo stesso tempo, di alleggerire i carichi di lavoro delle forze dell’ordine, evitando di ricorrere a continui controlli e visite ispettive, come nei casi delle arresti domiciliari “tradizionali”. Quelle risorse umane e finanziarie avrebbero così potuto essere concentrate in attività di prevenzione del crimine.

In conseguenza degli incontri tra il Ministero della Giustizia, la Polizia di Stato ed il Ministero dell’Interno, al fine di valutare l’impatto potenziale del controllo elettronico nell’ordinamento, si era giunti alla decisione di prevedere una legge ad hoc per l’introduzione del congegno elettronico.

La sorveglianza venne pensata come misura di controllo e non come uno strumento di responsabilizzazione del soggetto nel seguire un programma di reinserimento sociale, soggiacendo pertanto ad essa una volontà di controllo con l’obiettivo di aumentare la sicurezza collettiva all’interno della comunità.

Nel corso del 2001, il Ministero dell’Interno, che aveva firmato una convenzione con la società Telecom S.p.A. per la fornitura dei braccialetti su tutto il territorio nazionale, è stato oggetto di varie critiche: Telecom si era aggiudicata la gestione del servizio senza gara d’appalto e dei 400 dispositivi che il Ministero aveva noleggiato dalla società di telecomunicazioni, solo 11 erano stati utilizzati, a fronte di una spesa pubblica che aveva raggiunto i 110 milioni di euro. In pratica, l’operazione costò alle casse dello Stato 10 milioni di euro a braccialetto (!).

Per tentare di sanare questo divario tra la norma ed il loro reale impiego, era intervenuta l’ex ministra Cancellieri che, dando corso nel 2013 al cosiddetto decreto svuota-carceri, caldeggiava l’utilizzo del braccialetto elettronico. Fino al 2014, però, i dispositivi utilizzati da 11 erano saliti soltanto a 55, su disposizione di alcuni uffici giudiziari che erano stati oggetto di sperimentazione.

L’esiguo richiamo prodotto dalla nuova sorveglianza elettronica va ricondotto a due ordini di ragioni: da un lato, un forte preconcetto da parte della magistratura italiana nei confronti dei dispositivi elettronici e, dall’altro, una grave mancanza di informazione sulla possibilità di applicarli.

Grazie ad un articolo redatto dall’allora giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, Alessandra Bassi, insieme al sostituto procuratore della Procura di Firenze, Christine Von Borries, in cui si spiegava come richiedere l’applicazione dei dispositivi, alcuni magistrati iniziarono a dar corso alle procedure applicative della sorveglianza elettronica.

Le critiche nei confronti di questo sottoutilizzo vennero mosse anche da parte del TAR del Lazio che con una pronuncia aveva annullato l’accordo tra Ministero e Telecom, pur lasciando in vigore la convenzione fino al 2013, la quale poi venne riattivata fino al 31 dicembre 2018 ed altresì dalla Corte dei Conti che aveva evidenziato i costi stratosferici di gestione del sistema, i quali raggiungevano gli oltre dieci milioni annui, rispetto alle poche decine di dispositivi applicati.

Nessun effetto deflattivo sulla custodia cautelare in carcere

Nonostante gli interventi di modifica legislativa abbiano inciso sui tassi di soggetti in pre trial detention, soprattutto nei due anni successivi alla sentenza di condanna della Corte EDU, ad oggi sembrano aver terminato di esperire i loro effetti deflattivi: i numeri di detenuti in custodia cautelare, ovvero di tutta quella fascia di soggetti che hanno varcato le soglie del carcere, ma che sono in attesa di un primo giudizio — e pertanto presunti innocenti — dal 2017 sono nuovamente in aumento.

La domanda che sovviene non può che richiamare l’efficacia sortita dalle novelle legislative. La percezione è che le riforme introdotte rappresentino delle toppe che vengono continuamente apposte su di un tessuto ormai liso e che gli interventi siano settoriali, privi di organicità, tesi perlopiù ad eludere ulteriori condanne in sede europea.

La legge nr. 47 del 2015, anch’essa introduttiva di un ulteriore restringimento della portata della custodia cautelare ha disposto che la stessa può essere applicata solo quando le altre misure coercitive e interdittive — anche se utilizzate cumulativamente — risultino inadeguate, ma la vera modifica tesa ad incentivarne l’utilizzo è stata introdotta con il decreto legge nr. 146/2013 ed è consistente nell’inversione dell’onere motivazionale: mentre in passato il giudice poteva disporre l’applicazione di mezzi tecnici di controllo solo nel caso in cui lo avesse ritenuto necessario, la norma dispone che le procedure elettroniche di controllo siano sempre applicate dal giudice, salvo che le stesse siano ritenute non necessarie.

Gli arresti domiciliari con strumenti di controllo elettronico rappresenterebbero in altri termini, una misura sostitutiva della custodia in carcere, a metà fra quella sanzionata dalla custodia detentiva e quella gestita dagli arresti domiciliari semplici.
Ma i dispositivi continuano a mancare.

Liste d’attesa per avere il braccialetto elettronico

Con le novelle legislative il sistema è andato a saturazione in poco tempo: attualmente tutti i 2000 dispositivi sono utilizzati e i detenuti in attesa di braccialetto sono all’incirca 700, generando l’effetto perverso di mantenere più persone all’interno delle mura carcerarie.

Se è pur vero che i dispositivi disponibili sono tutti utilizzati, allo stesso modo è vero che i numeri dei soggetti in custodia cautelare sembrano nuovamente in crescita ed un numero di braccialetti così contenuto non fa che confliggere con l’ideale deflattivo per cui era stata pensata la loro introduzione.

È proprio all’interno di queste incongruenze che si manifesta in toto il paradosso della giustizia penale ponendo diversi interrogativi sull’introduzione di nuove misure alternative alla carcerazione che hanno visto come motivazioni sottese alla loro implementazione il contenimento dei costi e la cancellazione dell’idea di un luogo di pena, trasferita poi, nella pratica, all’interno delle mura domestiche, considerato l’inutilizzo dei dispositivi con tracciamento del posizionamento globale.

L’indisponibilità dei congegni elettronici ha condotto la magistratura a dare un’interpretazione restrittiva dell’uso del “braccialetto elettronico”: molte delle persone in “lista d’attesa” restano in custodia cautelare all’interno degli istituti penitenziari e, solo in pochi casi, accedono agli arresti domiciliari semplici. Dunque, una mancanza logistica e organizzativa dello Stato si ripercuote, di fatto sui diritti individuali.

Nonostante il Viminale stia tentando di correre ai ripari, bandendo una nuova gara d’appalto, vinta — nonostante il ricorso al Tar da parte di Telecom — da Fastweb e Vitrociset per la fornitura di mille braccialetti al mese, per 36 mesi, in modo da ridurre le “liste d’attesa”, la misura del braccialetto elettronico, contrariamente a quanto auspicato dall’ intentio legis riformatrice, non ha perciò rappresentato un’opportunità di uscita dal carcere, ma un supplemento afflittivo alla misura degli arresti domiciliari. Ancora una volta, il portato normativo si era prefissato degli obiettivi che nella pratica non stati sono raggiunti, permanendo un forte divario tra la fase di ideazione della politica criminale e le sue ricadute pratiche in termini di deflazione dei tassi di carcerazione preventiva.

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