Lavoro e formazione professionale in carcere

Dovrebbero essere centrali nel percorso che porta al reinserimento sociale. E invece, spesso, rappresentano una delle più serie mancanze

Associazione Antigone
9 min readOct 12, 2022
Foto dal web-doc “Inside carceri” prodotto da Antigone e Next New Media

Il lavoro è uno degli elementi del trattamento penitenziario più importanti per innumerevoli motivi. Per citarne alcuni, il lavoro consente ai detenuti di responsabilizzarsi, di mettere da parte dei risparmi per quando usciranno, permette loro di guadagnare qualcosa da spendere al sopravvitto e, non da ultimo, di poter sostenere economicamente la loro famiglia all’esterno. Il lavoro all’esterno è invece una delle parti più avanzate del trattamento penitenziario perché permette ai detenuti di riavvicinarsi alla comunità lasciando le mura del carcere e poi rientrare autonomamente. Infine la formazione professionale consente di imparare un mestiere e gettare le basi per costruirsi un nuovo futuro.

Ma quante persone realmente accedono al lavoro o alla formazione professionale? Abbiamo provato a far luce su questi elementi del trattamento utilizzando i dati raccolti dal nostro Osservatorio.

Lavoro alle dipendenze del DAP

Nel corso del 2021 Antigone ha visitato 96 istituti penitenziari. Dai dati da noi raccolti durante quelle visite risultava in media lavorare per l’amministrazione penitenziaria il 33% dei detenuti presenti, ma il dato è significativamente disomogeneo se si guarda ai singoli istituti. Si arriva addirittura all’impiego del 100% dei presenti nella Casa di reclusione di Mamone in Sardegna, ma ci sono anche situazioni come quelle di Carinola o Ancona Barcaglione in cui lavorava meno del 10% dei presenti. In tutti questi casi si tratta però per lo più di lavori scarsamente professionalizzanti e svolti per brevi periodi, con una turnazione frequente in modo da garantire l’accesso al lavoro a più detenuti possibile.

Lavoro alle dipendenze di terzi

Generalmente più qualificanti e maggiormente assimilabili al lavoro fuori dal carcere sono i lavori alle dipendenze di datori di lavoro esterni, cooperative sociali o società profit che portano in carcere parte del proprio processo produttivo. In questo caso però i numeri sono molto contenuti. Lavorava in media per datori di lavoro esterni solo il 2,2% dei detenuti presenti al momento delle nostre visite. In ben 38 istituti visitati non c’era nessun datore di lavoro diverso dal carcere stesso, ma ci sono anche esempi virtuosi. Alla Casa di reclusione di Orvieto, un istituto con 84 presenze, lavoravano per datori di lavoro esterni ben 30 detenuti, a Castelfranco Emilia, 77 presenti e 15 impiegati.

Lavoro in articolo 21

Un altro importante istituto è quello dell’articolo 21, ovvero dell’ammissione al lavoro esterno. Questa disposizione consente alle persone detenute di recarsi sul posto di lavoro all’esterno dell’istituto penitenziario senza essere scortati e di lavorare come qualunque altra persona per ditte presenti sul territorio favorendo anche il ritorno in società. In realtà negli ultimi anni stiamo assistendo all’utilizzo dell’articolo 21 anche nel lavoro interno al carcere (generalmente nell’intercinta) anche alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria in modo che i detenuti possano lavorare senza supervisione da parte del personale di polizia penitenziaria (i c.d. “articoli 21 interni”). Se da una parte ciò consente di aumentare le possibilità di lavoro per i detenuti, dall’altra in qualche modo svilisce i contenuti dell’articolo 21, che prevederebbe comunque un’uscita dall’istituto penitenziario, un’organizzazione e una responsabilizzazione dell’individuo a cui viene dato un ampissimo margine di autonomia. Tutte cose che assumono molto meno rilievo se la persona si ritrova a lavorare nell’intercinta del carcere. Sui 96 istituti visitati da Antigone, in media erano il 3,7% i detenuti in articolo 21. In ben 9 istituti nessuno era ammesso al lavoro esterno, nella maggior parte degli altri le percentuali di detenuti in articolo 21 sono inferiori al 5% e soltanto alcuni istituti hanno numeri e percentuali degne di nota. Per esempio la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia in Emilia–Romagna ha 39 detenuti ammessi al lavoro esterno, che rappresentano la metà dei detenuti presenti, segue la Casa Circondariale di Torino — Lorusso e Cutugno di Torino con 35 detenuti su oltre 1300 (il 2,5%), la Casa di reclusione — Onanì-Mamone in Sardegna con 32 detenuti (34% dei detenuti presenti) a pari merito con la Casa di Reclusione di Palermo “Ucciardone”, che pur avendo 32 detenuti in articolo 21, essendo più grande, rappresentano solo l’8,2% del totale dei presenti.

Formazione professionale

Anche i dati sulla formazione professionale sono abbastanza sconfortanti. Al momento delle nostre visite partecipava a corsi di formazione professionale solo il 2,3% dei presenti, purtroppo in diminuzione negli ultimi anni. Infatti in molti istituti la formazione professionale non si svolge da anni e in altri non è ancora ripresa nonostante l’allentamento delle misure contro il Covid. Soltanto in 22 istituti gli osservatori di Antigone riportano la presenza di detenuti che partecipano a corsi di formazione professionale. Nella maggior parte dei casi si tratta di una decina di detenuti o meno, ma spiccano alcuni casi particolarmente positivi, per esempio nella Casa Circondariale di Torino — Lorusso e Cutugno di Torino sono ben 158 i detenuti coinvolti in corsi di formazione (11,5% su oltre 1300 detenuti), seguito dalla Casa Circondariale “Petrusa” di Agrigento con 43 detenuti (ovvero il 13,8% del totale) e dalla Casa Circondariale Di Ancona — Montacuto con 41 detenuti (12,5%).

Foto dal web-doc “Inside carceri” prodotto da Antigone e Next New Media

Case circondariali vs Case di reclusione

Si notano anche alcune ovvie differenze fra case circondariali e di reclusione oltre che sulla loro dislocazione. Nelle case di reclusione la media delle persone che lavorano per il DAP è più elevata (38,7%), così come quella dei detenuti in articolo 21 (7,7%) e quella delle persone che lavorano per datori di lavoro esterni (3,4%) seppur si mantenga comunque molto bassa. Nelle case circondariali, dove il turnover è più marcato e le pene sono più brevi, il trend è opposto: una media del 30,6% dei detenuti lavora alle dipendenze del DAP e dell’1,7% alle dipendenze di esterni. La media dei detenuti in articolo 21 scende al 2,7%. I dati sulla formazione professionale rimangono invece invariati.

Istituti urbani vs istituti extra-urbani

Anche rispetto alla dislocazione urbana o extra-urbana degli istituti si notano delle differenze. Alle dipendenze del DAP si lavora di più negli istituti extra-urbani (35,8%), probabilmente anche per sopperire alla mancanza di datori di lavoro esterni, e meno in quelli urbani (30%), mentre ci sono più impiegati per datori di lavoro esterni negli istituti urbani (3%) piuttosto che negli istituti extra-urbani (1,44%). Questo dato desta particolare interesse in quanto gli istituti dislocati in zone urbane sono significativamente più vecchi (ovvero sono edifici antecedenti il 1900) rispetto a quelli costruiti in zone extra-urbane, costruiti dagli anni 50 in avanti. Generalmente questi ultimi presentano degli spazi comuni e per le lavorazioni più ampi rispetto agli edifici più vecchi, dove invece gli spazi per il lavoro e la formazione sono ricavati per quanto possibile, ma probabilmente la lontananza dai centri abitati li rende meno visibili oltre che meno raggiungibili. Rispetto alla dislocazione si nota una leggera differenza nelle medie che riguardano anche la formazione professionale: negli istituti urbani la percentuale delle persone detenute che partecipano ad attività di formazione professionale scende all’1,4% mentre negli istituti extra-urbani la media è dell’1,9%. Anche nel caso dei detenuti in articolo 21 le differenze non sono considerevoli: troviamo una media del 3,5% di detenuti in articolo 21 in carceri extra-urbani e una media del 3,9% in carceri urbani.

Spazi per le lavorazioni

Gli istituti che sono privi di spazi per le lavorazioni vedono ovviamente un crollo sia delle persone che lavorano per esterni (0,63%) sia della formazione professionale (0,6%) contro una media più alta di persone che lavorano per il DAP (34,25%). Dove invece sono presenti spazi per le lavorazioni si trova una media significativamente più alta di detenuti che lavorano per esterni (3,19%).

Nord, Centro e Sud

La situazione appare molto diversa anche dal punto di vista regionale. Fra le regioni del nord Italia scende la percentuale di persone che lavorano per il DAP 28,8%, ma sale quella dei lavoratori per datori di lavoro esterni (3,78%) così come i detenuti in articolo 21 (4,6%) e la formazione professionale (2,8%). Nel centro Italia sale la media delle persone dipendenti dal DAP (38,5%), scendono i detenuti che lavorano per datori di lavoro esterni (2,7%) così come i detenuti in articolo 21 (3,7%) e la formazione professionale (1,62%). Infine la situazione si fa drammatica nelle regioni del sud dove non sono altissime le medie delle percentuali di persone che lavorano per il DAP (32,8%) né quelle dei detenuti in articolo 21 (3%) e scende drammaticamente la media dei lavoratori per datori di lavoro esterni (0,85%) insieme alla formazione professionale (1,04%).

La “Legge Smuraglia”

I dati qui sopra ricalcano in maniera molto puntuale i dati sulla distribuzione degli sgravi della “legge Smuraglia”, la cui applicazione nel 2022 (9 milioni) risulta molto diseguale lungo la penisola. Vediamo infatti che le regioni del nord si accaparrano quasi i tre quarti di questi sgravi, Lombardia in testa con il 37,2%, seguita da Veneto, Friuli e Trentino, che messe insieme si avvalgono del 27,8%. Il centro Italia segue a grande distanza, con circa un quinto del totale, mentre Sicilia, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria e Sardegna insieme arrivano a malapena al 5%. Questa ripartizione degli sgravi, se da un lato può essere correlata con il livello di industrializzazione delle regioni italiane, dall’altro può essere un sintomo di una maggiore conoscenza nel nord Italia dei vantaggi della “legge Smuraglia”, che invece nel sud potrebbe essere meno conosciuta.

Lo scopo della pena

Nel nostro ultimo Rapporto abbiamo evidenziato come i dati sul numero di carcerazioni precedenti della popolazione detenuta in Italia siano particolarmente preoccupanti. Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38% era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato addirittura 5 o più volte. Nonostante questo dato probabilmente non indichi soltanto il numero di carcerazioni per un nuovo reato, ma anche gli ingressi nel sistema penitenziario per altri motivi, rimane comunque alto, troppo alto per considerarlo soddisfacente. Eppure fare di più è possibile se non doveroso e sicuramente investire maggiormente sul lavoro e sulla formazione professionale è un punto di partenza. Tuttavia piuttosto che sul lavoro alle dipendenze del DAP, l’obiettivo dovrebbe essere quello del lavoro per datori di lavoro esterni, che possono portare all’interno del carcere lavorazioni più qualificanti, che i detenuti potrebbero continuare all’esterno sia in articolo 21 sia una volta concluso il periodo di detenzione. A questo scopo le risorse delle istituzioni dovrebbero essere volte ad allacciare (o riallacciare) legami con imprenditori ed enti locali per attivare lavorazioni in carcere, posti di lavoro all’esterno e corsi di formazione professionale. Informare e sensibilizzare gli imprenditori del territorio sui benefici e gli sgravi fiscali che possono ottenere assumendo detenuti o spostando parte della loro produzione in carcere dovrebbe essere parte del lavoro del carcere e utilizzare le nuove tecnologie in accordo con gli enti di formazione professionale potrebbe dare la possibilità ai detenuti di accedere a corsi di formazione che si svolgono sul territorio a cui altrimenti non potrebbero iscriversi.

Il progetto Next steps

Il progetto Erasmus+ Next Steps si pone l’obiettivo di sostenere gli istituti penitenziari nello sviluppo professionale e nella reintegrazione dei detenuti nella società anche al fine contrastare gli alti tassi di recidiva registrati in Europa. Il progetto è sviluppato in partenariato fra diverse associazioni che lavorano in 4 paesi europei (Germania, Austria, Italia, Portogallo) e prevede 3 azioni principali:

  1. Banca dati di volontari e aziende: Verrà sviluppata una banca dati per permettere alle aziende, ai volontari e alle associazioni di registrarsi — in maniera autonoma — se desiderano collaborare con gli istituti penitenziari e le persone detenute (offrendo uno stage, un corso di formazione, un‘attività di volontariato o un impiego qualificato) per facilitare un percorso di reintegrazione in società una volta terminata la pena.
  2. Schede di osservazione di soft skills: Verranno elaborate delle schede di valutazione utilizzabili dallo staff penitenziario e le ONG che offrono attività in carcere per facilitare l’osservazione delle competenze sociali delle persone detenute, competenze utili nel mercato del lavoro e che la persona detenuta può migliorare nel tempo.
  3. Filiera per l’inserimento lavorativo: La filiera offre la possibilità di facilitare l’integrazione degli ex detenuti in stage, corsi di formazione professionale e mondo del lavoro tutto. Questo processo vuole essere una possibile procedura ideale-tipica per preparare i detenuti al passaggio dalla detenzione al mercato del lavoro, utilizzando il database di volontari e aziende, le schede di osservazione delle soft skills, nonché le altre opzioni di supporto disponibili fornite dai sistemi giudiziari nei paesi partecipanti al progetto.

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