Il problema della salute mentale in carcere

Il quarto approfondimento della serie “Salute e carcere” che stiamo realizzando con il SISM-Segretariato Italiano Studenti di Medicina, si concentra sul problema del trattamento delle malattie mentali negli istituti di pena. Un tema al centro dell’attenzione negli ultimi anni tra OPG, Rems, Reparti di Osservazione Psichiatrica e abuso di psicofarmaci.

Associazione Antigone
8 min readSep 19, 2019

di Maddalena Di Lillo

Foto dal web-doc Inside carceri, realizzato da Antigone e Next New Media

All’interno di un carcere, la salute mentale è più vulnerabile di quanto non accada nella società libera. Sono diversi gli studi(1) che mostrano come nel sistema penitenziario la percentuale di soggetti affetti da patologie psichiatriche sia più elevata che all’esterno.

L’insorgenza di malattie mentali fra i detenuti è dovuta a vari fattori, primi fra tutti le condizioni ambientali: il numero di ore che si passano fuori dalla cella, le attività formative e lavorative a cui si ha accesso, la limitazione degli spazi personali — che aumenta all’aumentare del tasso di affollamento — le temperature elevate, e via dicendo.

Anche il genere è un fattore di rischio importante(2): le donne sarebbero più esposte degli uomini a questo tipo di patologie. Dei ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma(3) hanno mostrato come tra le donne ristrette vi sia un’elevata incidenza di temperamenti patologici. In particolare sono stati messi in luce comportamenti distimici o ciclotimici, ansiosi o irritabili, atteggiamenti di attaccamento insicuro, condotte di evitamento o impulsività.

Al di là del genere e fermo restando che il carcere ha in sé elementi strutturali che favoriscono l’emergere di patologie psichiatriche, bisogna considerare che spesso le condizioni psico-fisiche di chi incappa nel sistema penitenziario sono precarie già prima del suo ingresso: tra marginalità sociale e patologie psichiatriche vi è un nesso che in carcere si rafforza ulteriormente.

La vita detentiva ha diverse fasi a cui si legano diverse reazioni da parte del soggetto ristretto e anche diversi rischi patologici. Uno dei momenti più critici per le persone detenute è quello dell’ingresso in istituto. Con l’ingresso in carcere la persona perde il proprio ruolo sociale, è privata dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente, del contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici. La persona detenuta vive rapporti sociali imposti e diventa dipendente dall’istituzione; sperimenta l’impotenza e la frustrazione, soprattutto delle aspettative. Un detenuto con difficoltà di adattamento può sviluppare, specie nella fase iniziale, psicopatologie quali ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e da crisi di identità, o addirittura disturbi correlati alle emozioni scaturite dal reato commesso.

I momenti scatenanti di patologie varie possono però riguardare altre fasi. Il celebre sociologo Erving Goffman ha individuato quattro momenti della vita detentiva: la fase iniziale; quella di adattamento regressivo, in cui il detenuto constata la propria impotenza a lottare contro il sistema; la fase dell’adattamento ideologico, in cui il detenuto accetta o finge di accettare la condanna, adeguandosi alla disciplina carceraria; quella dell’adattamento entusiastico, quando il detenuto fa propria la realtà carceraria, temendo la vita esterna.

I disturbi d’ansia generalizzata della fase iniziale, se il disadattamento persiste, possono diventare attacchi di panico e claustrofobia, quest’ultima data dallo spazio chiuso e invariato che può provocare sensazioni di compressione spaziale simili al panico claustrofobico. A lungo andare il contesto detentivo può causare al soggetto grave psicosi e senso di irrealtà. Molti detenuti manifestano poi un’irritabilità permanente, data da sentimenti di rabbia che possono essere somatizzati ed evolvere in patologie psicosomatiche: perdita di appetito, di peso, malessere generalizzato e aspecifico, esasperazione dei problemi medici preesistenti, disturbi visivi, tachicardia. La rabbia, laddove non si prosegua un obiettivo tangibile nella vita quotidiana, come spesso accade durante la detenzione, può essere percepita come stato depressivo e, se mal gestita, può condurre a episodi di autolesionismo e suicidio.

In due rilevanti ricerche italiane(4) i detenuti con minori risorse culturali e cognitive, che permettono di affrontare l’ambiente del carcere, riferivano di avvertire ottundimento delle capacità intellettive e apatia, manifestazioni di un più generale deterioramento mentale.

Altri disturbi psichici rilevati nella comunità ristretta sono il disturbo post traumatico da stress, il disturbo acuto da stress, il disturbo dell’adattamento, il disturbo del controllo degli impulsi (le cui espressioni possono essere la cleptomania, la piromania, il gioco d’azzardo patologico), i disturbi di personalità (in particolar modo quello borderline, antisociale e narcisistico) ed i disturbi da uso di sostanze.

Foto dal web-doc Inside carceri, realizzato da Antigone e Next New Media

Sindromi penitenziarie

Se da un lato tra le persone detenute insorgono con più facilità malattie psichiatriche presenti anche fuori dal carcere, dall’altro alcuni comportamenti e patologie sono tipici dell’ambiente detentivo. Queste patologie specifiche insorgono sia nelle case di reclusione, dove si scontano pene definitive al di sopra dei 5 anni, che nelle case circondariali, in cui sussiste un livello di ansia e aggressività più alto, per via dell’attesa del giudizio e del più alto turn-over(5).

Che il carcere sia patogeno, cioè che faccia sorgere delle malattie, lo testimonia il fatto che la medicina penitenziaria, branchia specifica della medicina, abbia coniato dei concetti ed espressioni specifiche. Una di queste è la Sindrome da ingresso in carcere, disturbo psichiatrico che compare frequentemente tra coloro che hanno un impatto drammatico, ossia tra chi presenta generalmente un grado di cultura maggiore e avverte un divario importante tra il tenore di vita condotto in libertà e quello carcerario. Da un punto di vista sintomatologico presenta sia disturbi somatici (disturbi dispeptici, esofagei, respiratori, sensazioni di soffocamento, tachicardia, vertigini, svenimenti) che sintomi psichici (stupore isterico, agitazione, crisi confusionali, perdita di piacere, rannicchiamento fetale, disorientamento spazio-temporale).

Il già citato studio di Goffman mette in luce un processo definito di disculturazione, che consiste nella perdita di valori e stili di vita posseduti in precedenza, con la conseguenza che la persona detenuta non riesce più ad affrontare le situazioni tipiche della realtà esterna. In carcere, questi abbandona tutto ciò che è stato per ridefinire il suo modo di essere, di pensare e fare con norme, usi e costumi appresi dall’esperienza carceraria. In questo sistema sono pochi i detenuti che reagiscono bene; molti lo subiscono. Ciò varia al variare dalla personalità dell’individuo stesso e dal grado di mantenimento delle relazioni interpersonali con le persone esterne. In quest’ottica i colloqui rivestono un ruolo di grande importanza, in quanto costituiscono dei momenti in cui i detenuti riescono a riportare in vita i propri legami sociali.

Le conseguenze patogene del carcere non si limitano al momento in cui si vive al suo interno: i detenuti se le portano dietro anche quando escono. La fase prossima alla scarcerazione porta spesso con sé una patologia chiamata Vertigine da uscita. Chi ne è affetto si trova in preda all’ansia e all’agitazione psichica e motoria. I suoi pensieri si focalizzano sulle difficoltà di vita del mondo esterno, sulla possibilità di commettere ancora reati e sul profondo timore di non essere in grado di ritornare sufficientemente autonomi. Il detenuto che sta per lasciare il carcere sperimenta poi la paura dell’estraniamento, l’incapacità di adeguarsi ai mutamenti della vita sociale e al nuovo contesto dopo la scarcerazione. Quando il sentimento d’inadeguatezza rispetto alla riconquista del proprio ruolo sociale e familiare prende il sopravvento può capitare di incorrere in comportamenti autolesivi e anche in tentativi di suicidio.

Qualche riflessione a parte la meritano gli atti di autolesionismo. Da una ricerca di Gonin sono emersi diversi momenti in cui vengono messi in atto comportamenti autoaggressivi: l’incarcerazione (1,7%); dai sette giorni ai quattro mesi successivi (9%); dopo circa sei mesi (4,5%); per tutto il periodo di detenzione (3,5%). Per atti autolesivi si intendono tutti i gesti autoaggressivi che possono essere messi in atto: automutilazioni (estrazione di denti, proiezioni sulla pelle, cucitura di labbra e palpebre, autoamputazione), scioperi della fame, ingestioni di corpi estranei, non adesione alla terapia, tentati suicidi. La condotta autolesiva del detenuto può avere origini differenti. Si possono distinguere un’origine psichica, sintomo di una patologia sottostante; una causa emotiva, quando l’atto viene utilizzato per instaurare una comunicazione, anche di protesta, con le autorità; una causa razionale, quando si ha un atto volontario volto ad ottenere un beneficio giudiziario-penitenziario. Da un punto di vista emotivo, il detenuto, isolato dalla società, privato dei propri effetti personali, del proprio spazio personale, della capacità di decidere per sé stesso, sviluppa una dipendenza dall’istituzione, con cui non ha una comunicazione diretta. Al fine di instaurare una comunicazione i detenuti si infliggono lesioni sul corpo, il mezzo che hanno per rivendicare i propri diritti umani. In questi contesti le istituzioni attuano dei regimi di stretta sorveglianza in modo da evitare l’epidemia di atti autolesionistici, ma anche di evitare che vengano messi in atto tentativi di suicidio.

I dati di Antigone

Dalle 40 visite effettuate dall’Osservatorio di Antigone nel corso del 2019 emerge che circa il 30% delle persone detenute assume psicofarmaci, dai più blandi (ansiolitici) a quelli somministrati nel corso di un monitoraggio costante da parte degli psichiatri. Questo a riprova del carattere intrinsecamente patogeno del carcere. Nel 25% per cento degli istituti visitati era presente un’articolazione per la salute mentale, ovvero un reparto per detenuti con infermità psichica a gestione sanitaria. Il numero settimanale medio di ore di presenza degli psichiatri per 100 detenuti era 7,4; 11,7 quello degli psicologi. Numeri troppo bassi per far fronte all’entità del fenomeno

Viste le diverse malattie psichiatriche e la prevalenza di queste all’interno della comunità ristretta, sia perché il carcere è un luogo che slatentizza patologie pregresse sia perché alcuni soggetti vi entrano già da malati, è bene che lo Stato si faccia carico della prevenzione di queste patologie e presta molta più attenzione alla cura delle persone affette dalle patologie psichiatriche all’interno del carcere. Ciò sarebbe un bene per il singolo soggetto, per la comunità carceraria, e, in vista di una riabilitazione, una volta scontata la pena, per la popolazione tutta.

Resta aggiornato sulle nostre attività. Iscriviti alla newsletter: https://bit.ly/2DFEzgI

NOTE:

1 Fazel, Baillargeon, 2011; Fazel et al., 2016; WHO, 2014, Hansen et al., 2008; Kaiser et al., 2011; Vida et al., 2012

2 Abdalla‐Filho, E., De Souza, P. A., Tramontina, J. F., & Taborda, J. G. (2010). Mental disorders in prisons. Current Opinion in Psychiatry, 23, 463–436.

3 Temperament, insecure attachment, impulsivity, and sexuality in women in jail; Paolo Iliceto PhD, Maurizio Pompili MD, PhD, Gabriella Candilera PhD, Iole Rosafio PsyD, Denise Erbuto; PsyD, Michele Battuello MD, David Lester PhD , Paolo Girardi M

4 Lazzari R., Ferracuti F., Rizzo G.B., Applicazione della Scala Wechsler Bellevue forma I su un gruppo di detenuti italiani, in Rassegna di studi penitenziari, 1, 1958.; Ferracuti F., Piperno A., Dinitz S., Deterioramento mentale da detenzione. Rilevamento a mezzo di test psicometrici degli effetti della carcerazione sulle capacità mentali, in Quaderni dell’Ufficio Studi, Ricerche e Documentazione — Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e Pena, 13,1976.

5 Mencacci e Loi, 2002; Zappa, Massetti, 2006

BIBLIOGRAFIA:

  • XIV rapporto sulle condizioni di detenzione. “Si torna a morire. Il preoccupante aumento di suicidi e morti in carcere” Perla Arianna Allegri, Giovanni Torrente
  • “La riforma della sanità penitenziaria compie 10 anni: più ombre che luci” Michele Miravalle e Daniela Ronco
  • Carcere e Salute, Baccaro
  • La presa in carico del paziente affetto da patologie complesse negli Istituti penitenziari: Profili epidemiologici e contesto ambientale. Dossier 263–2018, ISSN 1591–223X
  • Le Sindromi-penitenziarie, Cinzia Foglia

--

--

Associazione Antigone

Dal 1991 anni ci occupiamo di #Giustizia, di #Carceri, di #DirittiUmani e di #Tortura. Sostienici: http://www.antigone.it/sostieni