Il lavoro nell’esecuzione penale

Breve analisi di un cardine trattamentale tra aspetti valoriali e pratiche amministrative

Associazione Antigone
10 min readApr 15, 2021

di Giampaolo Romanzi*

Foto dal webdoc Inside Carceri di Antigone e Next New Media

Con le lenti della Costituzione

Il lavoro penitenziario nel cammino del legislatore

Dal primo regolamento penitenziario del Regno d’Italia del 1862, fino al regolamento penitenziario del 1931, il lavoro svolto nelle carceri è stato delineato in termini meramente afflittivi. Il lavoro era parte della sanzione penale e nel Regolamento Rocco era concepito come strettamente funzionale e necessario al completamento della pena e pertanto costituiva un obbligo per i condannati, con tanto di “punizione” in caso di mancata osservazione dell’obbligo di lavoro. Un obbligo che non trovava flessioni nemmeno davanti alla presunzione di non colpevolezza la dove, nell’art. 1 del reg. penit. del 1931, veniva stabilito che tale obbligo ricadesse anche su coloro soggetti in custodia preventiva e che non fossero in grado di mantenersi con i mezzi propri; in forza dell’asserita necessità di pagare le spese di mantenimento dell’imputato in carcere sostenute dallo Stato e che si attenuerà in mera “facoltà” con il regolamento del 1975. Con la legge 26 luglio n. 354 del 1975 e il successivo regolamento di attuazione D.P.R. 431 del 1976 si segna, com’è noto, una svolta rispetto alla storica concezione del detenuto come mero oggetto di afflizione e mortificazione in una logica di de-personalizzazione operante una redenzione. La legge sull’ ordinamento penitenziario del 1975 ha sancito il cambio di rotta verso un modello di esecuzione penale incentrato sulla figura del detenuto come “persona” facendo leva sul concetto e sulla metodologia del trattamento rieducativo come principio ispiratore dell’intero sistema penitenziario: trattamento inteso come promozione di un percorso di ripensamento critico della pregressa condotta criminale e di riavvicinamento ai valori di convivenza sociale violati dal detenuto condannato o internato.

Dunque, la legge del 1975 sull’ord. penit., e il successivo regolamento di attuazione, hanno così permesso lo scongelamento della quasi trentennale ibernazione della funzione rieducativa della pena accettata e sancita dall’Assemblea Costituente nel 1948, andando oltre una visione limitata e esclusivamente negativa del concetto di rieducazione sancito nell’art. 27 co. 3° della Cost. e rovesciando, inoltre, il modo di intendere e qualificare il lavoro penitenziario. Il lavoro penitenziario non è più strumentale all’esecuzione di una pena percepita come afflizione per un reo de-personalizzato, ma altresì, un istituto fondamentale per realizzare il suo reinserimento sociale in una dimensione dove la pena deve essere individualizzata. L’art. 15 ord. penit., delineando gli elementi del trattamento rieducativo e riconoscendo al lavoro penitenziario una valenza rieducativa, identifica l’ideologia del trattamento come strutturata anche del lavoro concepito come acquisizione di una abitudine ad un sistema di vita, nonché come possibilità per il detenuto di venir inserito in una attività che gli consenta di conseguire disponibilità economiche idonee a soddisfare i bisogni propri e della propria famiglia, offrendo così delle possibilità di reinserimento. Dunque, grazie alla perdita del carattere afflittivo e attraverso l’espressa indicazione secondo cui l’organizzazione e i metodi di lavoro penitenziario debbano riflettere quelli del lavoro nella società̀ libera (art. 20, c. 5), viene operato un importante passo in avanti nel superamento della storica dicotomia tra il lavoratore detenuto e non detenuto. Così, il lavoro prestato dalla comunità carceraria diviene di fatto pressoché identico a quello svolto dalle persone libere, trovando la sua espressione, oltre alle forme di lavoro inframurario ed extramurario alle dipendenze dell’amministrazione carceraria, anche nella forma di lavoro alle dipendenze di imprese, pubbliche o private, esterne, una suddivisione ribadita con il D.P.R. n. 230 del 2000. Con il più ampio e organico progetto legislativo in materia penitenziaria dal 1975, si supera il concetto di “obbligo” di lavoro, reticenza storica incasellata nella norma penitenziaria, confermando lo storico orientamento dottrinale e giurisprudenziale volto a superare ogni aspetto della concezione del lavoro penitenziario come potestas pubblica e ad includere i condannati nella sfera di protezione costituzionale del lavoro. La nota e discussa riforma dell’Ordinamento penitenziario del 2018 (d.lgs 123 e 124 del 2.10.18), rafforza tali scelte pur senza evolvere significativamente nella materia e istituendo alcuni istituti che hanno dato adito a rilievi critici.

In movimento attraverso il dettato valoriale

La riforma del 2018 è stata l’ultimo passo verso una sempre più effettiva lettura costituzionalmente orientata del lavoro penitenziario, una lettura indirizzata ad inquadrare il lavoro, aspetto fondamentale del trattamento rieducativo, attraverso i riflessi della Costituzione: attraverso il principio lavorista sancito nell’art. 1, il quale, attribuendo un particolare colore politico allo Stato italiano, esprime un indirizzo che deve caratterizzare l’azione dei pubblici poteri adducendo il lavoro a supremo criterio interpretativo; il principio di irriducibilità della dignità dell’uomo intesa quale nucleo minimo dei diritti fondamentali, espresso dall’art. 2; il principio della pari dignità sociale, di cui all’art. 3, in una dimensione valoriale dove il lavoro, tramite necessario per affermare la propria personalità, è “bene primario tra i beni primari” deputato a garantire la fattiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, e attraverso l’ art. 4, che, riconoscendo espressamente il diritto al lavoro, riconosce a carico alla Repubblica l’obbligo di creare e preservare le condizioni ottimali di occupazione. Ebbene, una lettura costituzionalmente orientata del lavoro non può che rafforzare gli aspetti valoriali delle posizioni assunte dai detenuti lavoratori, i quali, pur trovandosi in una situazione di particolare vulnerabilità, devono essere equiparati ai lavoratori in libertatis. La Corte Costituzionale, nel suo crescente percorso di riconoscimento in tema di funzione della pena e di diritti fondamentali dei detenuti, ha pienamente ribadito che la persona in vinculis, inserita nella “formazione sociale” carceraria, rimane titolare dei diritti inviolabili. Nella sentenza n. 103 del 1984, con riguardo alla giurisdizione, la Corte Costituzionale aveva avvertito non esservi ragione di distinzione tra il normale lavoro subordinato ed il lavoro dei detenuti o internati (e tale equiparazione, sotto l’aspetto sostanziale, è stata costantemente ribadita in più occasioni anche dalla Corte di cassazione a sezioni unite). Con la sentenza n. 26 del 1999 ha poi rilevato l’estraneità al vigente sistema costituzionale dell’idea secondo la quale la restrizione della libertà personale comporta come conseguenza il disconoscimento delle “posizioni soggettive”, attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria. La restrizione della libertà personale non comporta affatto una capitis deminutio e l’esecuzione della pena, con la rieducazione che ne è finalità, “non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà”.

Foto dal webdoc Inside Carceri di Antigone e Next New Media

Il Messaggio INPS n. 909 del 5 marzo 2019 e la sentenza del Tribunale di Venezia n. 886 del 2020

I detenuti lavoratori, così come i liberi cittadini, hanno diritto a percepire una remunerazione corrispondente alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali e in generale a un trattamento che deve essere mutuato su quello della società libera. Il forte valore rieducativo del lavoro penitenziario dipende proprio da queste caratteristiche, infatti, l’art. 20 comma 2 ord. penit., rompendo con il passato, definisce il lavoro svolto in regime di detenzione sotto il profilo della non afflittività del lavoro in sé, nonché attraverso la retribuibilità di tale impegno. Quest’ultime sono caratteristiche che ad oggi possono essere individuate come connotati appartenenti al lavoro penitenziario, come è stato riconosciuto dalla Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, tuttavia e nonostante tale giurisprudenza, l’INPS, con il Messaggio n. 909 del 5.3.2019, ha previsto la non erogabilità della NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) a detenuti ed ex detenuti che abbiano svolto lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per i loro periodi di inattività lavorativa. Alcuni Garanti regionali dei diritti dei detenuti hanno contestato tale prassi poiché nega illegittimamente prestazioni previdenziali ed opera una forzatura interpretativa della sentenza n. 15505 del 2006 della Corte di Cassazione che andrebbe a riconoscere il lavoro penitenziario come un istituto differente rispetto al lavoro svolto fuori la detenzione, rilevando come l’attività lavorativa svolta nell’ambito carcerario sia senza dubbio peculiare, data la sua volitiva forza risocializzante, e dunque da trattare differentemente, anche sul piano previdenziale, dall’attività lavorativa svolta dalla persona in libertatis. L’interpretazione operata dall’INPS opera indubbiamente una visione riduttiva del lavoro penitenziario, privandolo della sostanziale equiparazione rispetto al lavoro svolto dalle persone libere. Di conseguenza, i Garanti hanno sostenuto la possibilità dei lavoratori detenuti di poter ricorrere in via amministrativa ed al Giudice del Lavoro per far valere i propri diritti, e in quest’ottica, l’Associazione Antigone, la CGIL e Inca CGIL, hanno elaborato un modello di ricorso gerarchico, a disposizione di tutti, per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla NASpI. In caso di diniego anche da parte del Comitato provinciale dell’INPS sarà possibile ricorrere al tribunale del lavoro.

Recentemente sul tema si è pronunciato il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 886 del 2020, il quale, riconoscendo ed avvalorando l’iniziativa predetta, precisa che la legge sull’ordinamento penitenziario, nell’art.13, in piena attinenza con il principio rieducativo, prevede che «Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, incoraggiare le attitudini e valorizzare le competenze che possono essere di sostegno per il reinserimento sociale»; che nell’art. 15 contempla, tra gli elementi del trattamento, proprio il lavoro, senza distinzione alcuna tra lavoro interno e lavoro esterno, alle dipendenze dell’Amministrazione carceraria o di terzi, unitamente all’istruzione, alla formazione professionale, alla partecipazione a progetti di pubblica utilità, alla religione, alle attività culturali, ricreative e sportive; che nell’art. 20, commi 1, 2, 5 e 17 dispone altresì che «negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. […]», che «il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato», che «l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale», che «la durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e, alla stregua di tali leggi, sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale. […]». Dunque, il Giudice del Lavoro ripercorrendo le disposizioni della legge penitenziaria assicura al lavoro penitenziario un trattamento, e dunque una identificazione dello stesso, alla stregua di quello svolto dalle persone in libertà, proprio in ragione delle finalità che lo caratterizzano. In tal senso si era espressa già la Corte Costituzionale con la sentenza n. 158 del 2001, la quale affermò che «è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto di lavoro in generale è […] tuttavia, né tale specificità [propria del lavoro penitenziario], né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato». La disciplina del lavoro penitenziario deve dunque essere equiparata, nonostante le peculiarità che lo contraddistinguono, sotto il profilo dei diritti fondamentali riconosciuti al lavoratore libero, innanzitutto i diritti in materia di retribuzione, di ferie e di riposi.

Ebbene, come ha ricordato il Giudice del Lavoro, l’art. 38, comma 2, della Costituzione, prevede che «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di (…) disoccupazione involontaria» e l’art. 20 cit. riconosce al lavoro penitenziario, senza operare distinzione alcuna, «la tutela assicurativa e previdenziale» secondo le «leggi vigenti», rientrando in tale previsione anche l’indennità richiesta dal ricorrente per il caso di disoccupazione. Inoltre, il Giudice del Lavoro, concordando con il ricorrente rileva come la negazione della NASpI confliggerebbe con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, in quanto i detenuti sarebbero gli unici nell’ordinamento a versare la contribuzione volta a finanziare la NASpI senza potersene avvantaggiare. Il Giudice del Lavoro, ancora, rileva come la ricostruzione dell’INPS confliggerebbe con la funzione trattamentale assegnata dal legislatore al lavoro penitenziario, calcolando che anche il sostegno economico durante il percorso di reinserimento abbia una indubbia valenza trattamentale anche in forza dell’innegabile effetto positivo sul processo di “modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale” (art.1 comma 2 ord. penit.). Dunque, il Tribunale conclude rilevando che se alla cessazione del rapporto di lavoro in ragione della scarcerazione per fine pena, pur ricorrendone gli altri presupposti, non fosse riconosciuta la tutela della disoccupazione anche la funzione rieducativa della pena sarebbe vanificata: se infatti il lavoro penitenziario ha una finalità di recupero e reintegrazione, ugualmente la disponibilità di un sostegno economico nel delicato processo di reinserimento nella società ha un’indubbia valenza trattamentale, tesa a non vanificare gli sforzi di riabilitazione profusi nel corso dell’espiazione della pena.

Conclusioni

L’esecuzione del principio rieducativo richiede l’osservanza di tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e ogni limitazione dei diritti del detenuto — che non sia strettamente funzionale a garantire sicurezza — acquista un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale e in quanto tale inammissibile in un ordinamento basato sulla assoluta priorità dei diritti della persona, che trova per l’appunto nella privazione della libertà personale il limite massimo insuperabile. Il percorso del rispetto della dignità, dell’umanità, della rieducazione, è il solo compatibile con i tratti della Costituzione, sia quelli indicati nell’art. 27, sia quelli degli artt. 2, 3 e dei principi fondamentali. Questo è l’unico percorso in grado di superare il carcere inteso come ortus clausus garante di pubblica sicurezza, a favore di un carcere in cui la sicurezza viene realizzata attraverso un processo di responsabilizzazione e di recupero graduale della libertà.

Lavorare permette di nutrire speranze nelle individuali possibilità̀ di poter costruire un futuro, di acquisire o riacquisire l’abitudine ad un sistema di vita e consente ai detenuti di affrontare il momento delicatissimo del ritorno nella società̀ libera con un bagaglio di competenze, esperienze e di disponibilità economiche. Lo svolgimento di attività lavorative durante l’esecuzione della pena contrasta efficacemente il rischio di recidiva e ricadute nella devianza, permette una solida responsabilizzazione della persona detenuta e una professionalizzazione nella prospettiva di un futuro ritorno in libertà. Per tale ragione il lavoro penitenziario, in tutte le sue pertinenze, anche quelle previdenziali ed assicurative, dev’essere garantito e sostenuto dalla Repubblica nel pieno rispetto dei valori costituzionali, e dunque nella piena affermazione di un’uguaglianza tra lavoratori. La sentenza del Tribunale di Venezia n. 886 del 2020 sconfessa le prassi amministrative preclusive di un trattamento ugualitario del diritto al lavoro, salda ancora di più la retribuzione e gli emolumenti previdenziali e assistenziali ai caratteri essenziali, perciò necessari, del lavoro penitenziario, e dunque contribuisce ad una definizione del trattamento rieducativo stretta al lavoro, diritto e valore ugualmente riconosciuto agli individui in tutti i suoi particolari, per la proprietà che esso assume all’interno del percorso rieducativo.

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*Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con la tesi dal titolo “Le logiche presuntive nell’ordinamento penitenziario”, relatore Prof. Pasquale Bronzo, correlatore Dott. Valerio Aiuti — Collaborate presso l’Ufficio del Difensore civico dell’Associazione Antigone da maggio 2018.

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