Il decreto Cura-Italia non cura il carcere. Scongiurare i lazzaretti, senza tentennamenti.

La grave situazione collegata al diffondersi del coronavirus sta richiedendo sforzi ed interventi importanti. Se il governo sta tentando di metterli in atto in diversi settori, dal sanitario all’economico, lo stesso non si può dire sul terreno penitenziario. Le misure contenute nell’ultimo decreto sono infatti totalmente insufficienti per mettere in sicurezza questo particolare settore della società. In questo approfondimento vediamo nel dettaglio perché, avanzando anche un’ipotesi numerica su quanti detenuti potrebbero effettivamente accedere ad una misura di detenzione domiciliare

Associazione Antigone
13 min readMar 19, 2020

di Michele Miravalle e Alessio Scandurra

Sono confluite nel decreto Cura-Italia (d.l. n. 18/2020), pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17 marzo 2020, le “soluzioni” adottate dal Governo sul fronte delle politiche penitenziarie ai tempi del coronavirus.

L’urgenza — assoluta ed indifferibile — è quella di fermare il contagio del COVID-19 anche nelle carceri italiane. Con un problema ulteriore rispetto al “fuori”, perché gli istituti penitenziari (come tutte le istituzioni totali) sono luoghi patogeni per loro stessa natura, che facilitano la diffusione del virus.

Il carcere è strutturalmente immaginato come un assembramento permanente di corpi che si devono forzatamente adattare a spazi stretti, contatti fisici continui, promiscuità, respiri ravvicinati, impossibilità materiale di mantenere distanze e di adottare le precauzioni che le autorità sanitarie raccomandano alla popolazione libera.

Il distanziamento sociale è impraticabile, sostituito dall’ avvicinamento forzato. Non si può mettere un metro di distanza tra un corpo e l’altro, non si possono indossare mascherine e altri dispositivi di protezione individuale (banalmente perché non ce ne sono abbastanza). L’eventuale isolamento delle persone contagiate è possibile solo per pochi (ad oggi, sono 16 le sezioni dove si può svolgere l’isolamento sanitario per i nuovi giunti, i trasferiti da altri istituti e le persone in quarantena sanitaria, sparse nei quasi duecento istituti della Penisola).

Il rischio più che possibile è trasformare i luoghi di detenzione in lazzaretti manzoniani, mettendo consapevolmente a rischio la vita di chi li abita (persone detenute, ma anche poliziotti penitenziari, operatori sanitari, educatori e direttori) e dei loro famigliari.

Chiunque abbia mai varcato le porte di un carcere, come gli Osservatori di Antigone fanno da due decenni, sa che non si tratta di una figura retorica, ma di uno scenario da considerare.

Uno scenario che va scongiurato, senza tentennamenti.

Le avvisaglie sono chiare e basta rileggere le “cronache penitenziarie” di queste ultime settimane per rendersene conto: le rivolte esplose tra l’8 e l’11 marzo hanno coinvolto, in maniera diversa, 49 istituti, praticamente un carcere su quattro. Sono costate vite umane (14 i morti accertati nelle carceri di Modena e Rieti — si tratta del bilancio più tragico registrato nella storia penitenziaria italiana, l’ultimo caso analogo si era registrato nel giugno 1989 alle Vallette di Torino, dove, in seguito ad un incendio, morirono 11 donne, tra agenti e detenute) e danneggiamenti di spazi e materiali (dati ufficiali non ne sono ancora stati forniti, ma potrebbero essere addirittura 2.000 i posti danneggiati dalle rivolte e momentaneamente non disponibili).

E intanto il contagio dentro le sezioni è già iniziato: sono 10 i casi accertati di coronavirus (al 18 marzo).

Per questo c’era molta attesa per le misure che il Governo avrebbe adottato. Da ogni parte sono arrivate proposte, possibili soluzioni, pratiche virtuose.

Anche Antigone, insieme a Anpi, CGIL, Arci e Gruppo Abele, ha fatto responsabilmente la sua parte, proponendo alcuni interventi che avevano come obiettivo la tutela della salute pubblica in carcere e la salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone detenute.

Ma il Governo ha optato per un intervento circoscritto, introducendo nel decreto Cura-Italia appena due disposizioni che riguardano il sistema penitenziario, gli artt. 123 e 124.

Cerchiamo di spiegare, anche a chi non è avvezzo alle questioni carcerarie, perché questo intervento è certamente insufficiente e avrà un impatto limitato.

L’intervento governativo: una prima panoramica. Cosa (non) cambia.

Fino ad oggi, a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza da COVID-19 del 23 febbraio, non vi era stato nessun intervento normativo in tema penitenziario. Tutte le misure erano state adottate con norme di rango secondario, in particolare circolari del Dipartimento per l’Amministrazione e del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. Le circolari avevano lo scopo di contenere e gestire l’emergenza epidemiologica, “chiudendo” il carcere ad ogni possibile fonte di contagio esterna.

In questo senso, sono state sospese le attività trattamentali, per le quali è previsto o necessario l’accesso della comunità esterna; limitate le attività lavorative esterne e quelle interne; sospesi gli ingressi di insegnanti, volontari, formatori provenienti dall’esterno. Ma la misura di maggior impatto (anche emotivo) per la popolazione detenuta ha riguardato la sospensione dei colloqui con familiari o terze persone, diverse dai difensori, sostituiti — laddove vi siano le strumentazioni tecniche necessarie — con i colloqui a distanza mediante Skype o Whatsapp e con telefonate aggiuntive, oltre i limiti di legge previsti.

Con il crescere della diffusione del virus, si sono poi aggiunti interventi riguardanti l’utilizzo di mascherine e di dispositivi di protezione individuale da parte del personale, tende di pre-triage montate all’ingresso degli istituti, forniture straordinarie di disinfettanti.

Ne è sorta una applicazione disomogenea e per lo più rimessa alle iniziative di singoli provveditorati regionali o direzioni ora con interpretazioni restrittive ora più permissive. Antigone ha cercato di fotografare la concreta applicazione di queste disposizioni in una mappa costantemente aggiornata, che restituisce l’idea di un sistema penitenziario “in ordine sparso” di fronte al coronavirus.

Questa serie di provvedimenti avevano riguardato soltanto l’organizzazione interna e i contatti con l’esterno. Non avevano invece toccato la questione cruciale: come diminuire la popolazione detenuta per abbassare il rischio di contagio legato al sovraffollamento, così da garantire, in caso di necessità, la gestione delle persone positive al virus.

Tali provvedimenti deflattivi possono arrivare soltanto o attraverso un impegno straordinario e diretto della magistratura di sorveglianza e di cognizione, chiamata a interpretare in maniera estensiva le possibilità di concessione di misure alternative al carcere oppure attraverso una modifica normativa.

Oppure — e sarebbe la scelta più efficace — attraverso un impegno congiunto di entrambi, il legislatore da una parte e l’autorità giurisdizionale dall’altra. Ad oggi, nessuno dei due interventi pare sufficiente.

Al 29 febbraio, in Italia erano 61.230 le persone detenute a fronte di una capienza di 50.931 posti, con un sovraffollamento di poco inferiore al 120%. Per tornare in una situazione di piena legalità, bisognerebbe darsi l’obiettivo comune di diminuire la popolazione detenuta di almeno 10.000 persone, a cominciare dai soggetti più vulnerabili, per età e per patologie pregresse.

Come ha scelto di intervenire il legislatore?

Premettiamo che gli interventi riguardano esclusivamente la popolazione detenuta con condanna definitiva ed escludono dunque tutte le persone che si trovano in carcere in custodia cautelare o comunque in attesa del passaggio in giudicato della propria condanna, che sono all’incirca il 30% del totale dei reclusi.

Il primo dei due interventi contenuti nel decreto Cura-Italia riguarda la detenzione domiciliare ed è contenuto all’art. 123 dl. 18/2020. Non si procede ad alcuna creazione di nuovi istituti, ma vengono semplicemente derogati, in senso cautamente estensivo, i limiti della l. 199/2010, il cui impianto rimane in vigore. Quella legge, meglio conosciuta come “Svuota carceri”, era stata adottata come provvedimento deflattivo temporaneo e poi è divenuta definitivamente parte integrante del nostro sistema sanzionatorio con nel 2014. In quella norma si prevedeva che i detenuti con una pena (anche residua) di 18 mesi potessero scontarla presso la propria abitazione o un altro luogo, pubblico o privato, che li accolga. Ma quella stessa legge non consentiva a tutti di accedere a questa misura alternativa, ma fissava stringenti preclusioni. Il nuovo intervento del legislatore non fa altro che ribadire la possibilità di scontare gli ultimi 18 mesi di pena presso il proprio domicilio, intervenendo sulle preclusioni poste dalla “Svuota carceri”, togliendone alcune, ma aggiungendone altre fino al 30 giugno 2020.

Vediamole in dettaglio. Rimangono preclusi all’accesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare, così come già prevedeva la l. 199/2010:

a) i soggetti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni e dagli articoli 572 (maltrattamenti in famiglia) e 612-bis (stalking) del codice penale. Si tratta di soggetti che già normalmente non accedono ai benefici e alle misure alternative, a causa della “gravità” del loro reato;

b) i delinquenti dichiarati abituali, professionali o per tendenza e dunque i soggetti con una pluri-recidivanza e, in generale, con una corposa biografia criminale;

c) detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato. Si tratta di soggetti che, se tornassero al proprio domicilio, potrebbero avere continui contatti con le persone offese del reato. Si tratta di una preclusione che pone l’accento sulla tutela delle persone offese.

A queste tre ipotesi, il nuovo decreto aggiunge due preclusioni di carattere disciplinare, molto problematiche. Il messaggio “moralizzatore” che il Governo intende lanciare è evidente e segue il principio che può accedere alla detenzione domiciliare solo il detenuto “disciplinato”, che abbia tenuto un comportamento corretto durante la sua detenzione. Un messaggio quasi pedagogico, che tuttavia rischia di allontanare il decreto dal modello garantista. Non va dimenticato infatti che i presupposti del decreto riguardano l’emergenza sanitaria e la tutela della salute delle persone detenute, e non la loro disciplina.

Rimarranno dunque escluse dalla possibilità di ottenere la detenzione domiciliare:

a) Tutti coloro che hanno ricevuto, nell’ultimo anno, un provvedimento disciplinare a seguito delle infrazioni di cui all’articolo 77, comma 1, numeri 18 (partecipazione a disordini o a sommosse), 19, (promozione di disordini o di sommosse), 20 (evasione) e 21 (fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari o di visitatori) del Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, Dpr 30 giugno 2000, n. 230. Non conta la gravità in concreto dell’infrazione e la severità del provvedimento disciplinare applicato, queste persone non potranno accedere alla misura alternativa, anche se possiedono tutti gli altri requisiti. Vero che rispetto alle prime bozze circolate del decreto, la lista di violazioni disciplinari preclusive è stata sfoltita, ma rimane il problema di non consentire una valutazione in concreto caso per caso.

b) I “detenuti nei cui confronti sia redatto rapporto disciplinare ai sensi dell’articolo 81, comma 1, del dpr 30 giugno 2000, n. 230, in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020”. Qui il riferimento esplicito è alle rivolte dei giorni scorsi e la “mano dura” del Governo che vuole enfatizzare la volontà punitiva nei confronti dei partecipanti alle rivolte è ancor più evidente, ma è molto problematica in fatto di garanzie. Per essere esclusi dalla misura alternativa basta infatti il semplice “rapporto disciplinare” che è un atto unilaterale con cui l’amministrazione contesta un’infrazione disciplinare alla persona detenuta, senza contraddittorio né possibilità di difesa da parte dello stesso, solitamente redatto dalla Polizia penitenziaria. Insomma, volendo fare un paragone con il processo penale, il “rapporto disciplinare” equivale alla denuncia o alla querela. Al “rapporto” seguirà un procedimento disciplinare e, eventualmente, un provvedimento. La formulazione del decreto non distingue il tipo di coinvolgimento nella rivolta. Ove sono stati interessati intere sezioni o addirittura interi istituti, il rischio di “generalizzare” e di dar peso a rapporti disciplinari seriali, è concreto. Essendo state le rivolte eterogenee tra loro, sarà difficile distinguere tra quelle violente e quelle non violente.

Rispetto alla legge del 2010 vengono invece omessi i riferimenti alla “concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga o commettere altri delitti”. Dunque il magistrato di sorveglianza non dovrà più fare alcuna valutazione in tal senso, snellendo molto l’attività istruttoria e limitando il suo potere discrezionale.

Il nuovo decreto prevede anche un “alleggerimento” dell’istruttoria per ottenere la detenzione domiciliare: la direzione dell’istituto penitenziario non sarà più tenuta a presentare la “relazione sulla condotta” della persona detenuta, solitamente redatta dall’educatore. Si alleggerirà così senza dubbio il lavoro del personale dell’amministrazione e si accorceranno significativamente i tempi della decisione. Nel caso di condannati minorenni, i servizi sociali territorialmente competenti dovranno comunque redigere, in accordo con gli educatori dell’istituto penale minorile, un “programma educativo”, entro trenta giorni da quando il giovane ha avuto accesso alla detenzione domiciliare.

Il secondo intervento di cui all’art. 124, di ancor minore impatto del primo, riguarda i permessi premio per i detenuti in semilibertà, da oggi concedibili, senza limiti, fino al 30 giugno 2020. Lo scopo è fare in modo che chi di giorno esce dal carcere in semilibertà per lavorare non ci debba tornare la sera, con i rischi di contagio che la cosa comporta, e possa invece, restare la sera a casa fino al 30 giugno.

Dove sono i braccialetti elettronici?

C’è però un altro aspetto molto problematico del decreto. Anche qualora tutti i requisiti di accesso alla detenzione domiciliare fossero soddisfatti, il Governo ha introdotto un altro limite, che potrebbe ridurre ulteriormente l’impatto della norma.

I potenziali beneficiari vengono infatti idealmente suddivisi in due categorie: da un lato, coloro che debbano scontare una condanna (anche residua) inferiore ai 6 mesi e i minorenni e dall’altro, coloro che hanno una condanna da scontare tra i 6 e i 18 mesi. I primi accederanno alla detenzione domiciliare senza ulteriori limitazioni, i secondi vi accederanno solo ed esclusivamente se vi è la disponibilità dei c.d. “braccialetti elettronici”.

Si riapre così, senza giustificati motivi in questa fase di emergenza sanitaria, la “saga” del controllo elettronico a distanza, che, almeno dalla fine degli anni Novanta, torna ciclicamente nel dibattito sulle politiche penali e penitenziarie, a prescindere dal colore dei governi. Antigone se ne era già ampiamente occupata con un articolo di Perla Allegri del 2018.

Era il 2001 quando il Ministero dell’Interno firmò una convenzione con la società Telecom S.p.A. per la fornitura dei primi braccialetti elettronici. Telecom si era aggiudicata la gestione del servizio senza gara d’appalto e dei 400 dispositivi che il Ministero aveva noleggiato dalla società di telecomunicazioni, solo 11 erano stati poi effettivamente utilizzati, a fronte di una spesa pubblica che aveva raggiunto i 110 milioni di euro. In pratica, l’operazione costò alle casse dello Stato 10 milioni di euro a braccialetto.

Poi il numero di dispositivi elettronici salì gradualmente. Gli ultimi dati del 2019 riportano che sono circa 2.000 i “braccialetti elettronici” utilizzati e vi è una lista di attesa di almeno 700 persone che attendono (per la maggior parte in carcere) la disponibilità del braccialetto. Il Ministero dell’Interno per incrementare l’utilizzo aveva indetto una nuova gara d’appalto, vinta da Fastweb e Vitrociset che prevedeva la fornitura di 1.000 braccialetti al mese per 36 mesi, a partire dal 2019, ma non vi sono notizie dell’effettiva avvenuta fornitura.

Si tenga conto che l’utilizzo dei braccialetti elettronici è previsto, dalla attuale normativa, sia per le persone in misura cautelare (art. 275 bis c.p.p.) sia per i condannati definitivi (art. 58 quinquies Ordinamento Penitenziario). Alla luce delle nuove disposizioni sorge spontaneo chiedersi: che fine hanno fatto i nuovi “braccialetti elettronici” promessi da Fastweb-Vitrociset? Quanti sono funzionanti e utilizzabili? Quanto è lunga la lista d’attesa per ottenere l’agognato braccialetto? Come verranno suddivisi i braccialetti tra le persone in misura cautelare e i beneficiari della detenzione domiciliare? Stando ai dati disponibili, pare che ad oggi non vi sia nessun braccialetto elettronico disponibile e dunque, la previsione del Governo pare essere, semplicemente, inapplicabile, a meno di non decidere che i braccialetti esistenti verranno applicati solo per le persone in detenzione domiciliare, disapplicando, di fatto, l’art. 275 bis c.p.p. Si attendono ovviamente smentite in tal senso.

L’impatto (quantitativo) del decreto. Ecco perché non basta.

In questo scenario la domanda che in molti ci stiamo facendo è: quale sarà l’impatto delle nuove misure introdotte dal governo? Quanti saranno i detenuti ad uscire? Le carceri torneranno quanto meno al livello della loro capienza regolamentare?

Fare previsioni puntuali sull’esito di questa misura è difficile, però ci sono alcuni elementi di fatto che si possono facilmente registrare. Anzitutto il bacino di potenziali di destinatari della misura. Al 31 dicembre 2019 in italia c’erano 8.682 detenuti a cui restava da scontare fino ad un’anno di carcere, 8.146 a cui restavano da scontare tra uno e due anni. Si può dunque immaginare che coloro a cui restavano da scontare 18 mesi, un anno e mezzo, fossero circa 12.000 persone, il 20% del totale della popolazione detenuta. Non poche dunque, poco meno di quelle che oggi sono detenute senza un posto letto regolamentare. Sarà dunque di queste dimensioni l’impatto della misura?

Certamente no. E questo per due ragioni. Anzitutto perché, grazie all’analoga misura prevista dalla legge 199 del 2010, che riguardava lo stesso bacino di detenuti ha consentito nei primi due mesi del 2020 l’uscita di appena 303 persone in tutto. Appare assai improbabile che nei prossimi giorni, in virtù di una misura sostanzialmente analoga, anche se di applicazione più rapida, possano uscire dal carcere diverse migliaia di persone.

La seconda ragione è che come abbiamo detto la nuova forma di detenzione domiciliare, a differenza della vecchia, prevede l’uso obbligatorio del braccialetto elettronico. E come abbiamo visto sopra, i braccialetti elettronici al momento non ci sono.

Stando così le cose gli esiti della nuova misura sarebbero sostanzialmente nulli, se non fosse che sono esentati dall’obbligo del braccialetto elettronico coloro che hanno un residuo di pena inferiore ai 6 mesi.

In definitiva è dunque questo il vero ambito di applicazione della misura. Non le 12.000 persone con meno di 18 mesi da scontare, ma le 4.000 con meno di 6 mesi di residuo pena.

E quanti saranno di questi 4.000 potenziali beneficiari ad uscire nei prossimi giorni? Perché, è bene ribadirlo, per evitare l’epidemia in carcere sono i prossimi giorni che contano, non i prossimi mesi.

Come abbiamo detto le preclusioni all’accesso a questa misura sono molte, ed alcune inedite (come quelle di carattere disciplinare descritte sopra), dunque difficili da “pesare” sul piano numerico. La relazione tecnica di accompagnamento al decreto parla di un impatto massimo di 3.000 persone. La stima ci pare realistica, e le persone che effettivamente usciranno a breve saranno probabilmente meno. Dunque il carcere resterà, inevitabilmente, sovraffollato, con buona pace degli epidemiologi.

Una goccia nel mare?

O un buco nell’acqua: scegliete voi l’immagine che preferite. Noi continuiamo a parlare di carcere. Dove ci sono in molti casi tre detenuti in celle di 12 metri quadri progettate per una persona sola. Difficilmente in quelle celle si resterà in due grazie a queste nuove misure. Nemmeno se il terzo compagno di cella ha più di 65 anni. Nemmeno se è affetto da una patologia polmonare o cardiaca, che in caso di contagio potrebbe costargli la vita. Perchè, che ci si creda o meno, nel decreto Cura Italia, contenente “Misure connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, le condizioni di salute delle persone detenute non sono nemmeno prese in considerazione.

Per evitare che le carceri italiane si trasformino in lazzaretti c’è ancora poco — pochissimo — tempo.

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