Il caso svedese e l’outsourcing penitenziario: una pericolosa tendenza in Europa
La recente proposta svedese di delocalizzazione delle carceri è l’ennesimo preoccupante tassello di una cultura dell’espulsione che si sta diffondendo in Europa. La strumentalizzazione mediatica della violenza e l’esternalizzazione delle frontiere sono al centro di questa misura, che mette a rischio i diritti umani in nome di una presunta sicurezza.
di Chiara Serafini e Simona Longo
Il 14 ottobre 2022, in Svezia, il Partito dei Moderati, dei Democratici Cristiani, dei Liberali e il partito di estrema destra dei Democratici Svedesi presentava l’Accordo di Tidö (Tidöavtalet). Tale accordo definiva le linee guida politiche su temi cruciali come la criminalità, l’immigrazione, la sicurezza pubblica e la riforma penitenziaria e vedeva coinvolti il ministro della Giustizia Gunnar Strömmer e il capo della commissione del governo Mattias Wahlstedt. Tra le principali misure introdotte, veniva proposto un rafforzamento delle politiche di sicurezza, con un’attenzione particolare al fenomeno della criminalità delle gang, ponendo le basi per una valutazione dell’outsourcing come soluzione al sovraffollamento delle carceri svedesi. L’accordo era stato analizzato e commentato dalla ONG svedese Civil Rights Defenders. “Come organizzazione per i diritti umani, siamo molto preoccupati per il contenuto dell’Accordo di Tidö. Esso contiene una serie di misure che vanno chiaramente contro gli standard in materia di diritti umani a cui la Svezia è vincolata”, affermava John Stauffer, Direttore Legale e Vice Direttore Esecutivo di Civil Rights Defenders. In merito alla delocalizzazione penitenziaria, l’organizzazione aveva espresso contrarietà, sottolineando come il concetto di criminalità associata alle gang (gang-related crime, usata dal governo per motivare la necessità della delocalizzazione) fosse poco chiaro e arbitrario.
Il 18 ottobre 2022, tramite la pubblicazione dello Statement of Government Policy, il governo svedese indicava tra le sue priorità politiche quella della lotta alla criminalità legata alle gang. Si prevedevano misure quali l’inasprimento delle pene per reati di criminalità organizzata, l’espulsione di persone straniere condannate per tali reati, l’introduzione di zone temporanee di fermo e perquisizione; si richiedeva, inoltre, di esaminare la possibilità di affittare strutture penitenziarie all’estero.
A dicembre 2023 il governo svedese ha commissionato un’indagine per avanzare la possibilità di affittare strutture penitenziarie all’estero, con l’obiettivo di trasferire persone detenute o condannate in Svezia in carceri straniere. L’indagine è stata presentata dal ministro della Giustizia svedese Gunnar Strömmer a fine gennaio, prevedendo nel futuro prossimo l’inizio delle negoziazioni di accordi con altri Paesi dell’UE e dello Spazio economico europeo (SEE). Al momento, l’Estonia ha segnalato la propria disponibilità ad affittare strutture attualmente vuote.
L’indagine di governo si compone di circa 400 pagine contenenti sia proposte legislative relative a modifiche delle leggi svedesi esistenti, sia un’analisi delle convenzioni internazionali sui diritti umani, nonché dettagli sul processo di attuazione e sugli impatti giuridici e pratici della proposta. Il documento fa riferimento a principi quali l’uguaglianza delle condizioni di detenzione indipendentemente dal luogo in cui sia scontata la pena, l’individuazione di paesi che siano comparabili e geograficamente vicini alla Svezia, il non limitarsi a detenuti non svedesi e di come la legge svedese debba essere applicata anche all’estero insieme al mantenimento del proprio personale. Tuttavia tali indicazioni suscitano perplessità in quanto il documento rimane molto vago su diversi aspetti legislativi. E, secondo la prospettiva di Civil Rights Defenders, tutto questo potrebbe colpire maggiormente i cittadini non svedesi.
Si prevede che le misure proposte entrino in vigore il 1° gennaio 2026. L’iter di approvazione avrebbe inizio con una fase di consultazione con l’invio del progetto di legge a diverse autorità e organizzazioni, anche della società civile, in modo da raccogliere pareri e osservazioni. Successivamente il governo sarebbe tenuto a presentare formalmente la proposta di legge al Parlamento, dove una commissione competente dovrà esaminarla, discuterla e proporre nel caso modifiche al testo. A seguito, questa andrebbe presentata per un dibattito finale e per la votazione, che avrà esito positivo nel momento in cui otterrà l’approvazione di una maggioranza qualificata. A promulgare la legge sarà infine il Re.
Per quanto presentata come una possibile soluzione alla scarsa disponibilità di posti all’interno delle strutture penitenziarie svedesi, l’idea di esternalizzare la gestione delle carceri e dei detenuti a Paesi esteri solleva dubbi sulla tutela dei diritti fondamentali e sul rispetto dello Stato di diritto[1]. In teoria, il personale incaricato di gestire i detenuti nelle carceri estere dovrebbe essere in prevalenza svedese, con la possibilità di ricorrere a personale straniero solo in casi specifici. Tuttavia, i criteri di selezione non sono sufficientemente definiti e sollevano dubbi sulla qualità e affidabilità della gestione. Inoltre, la giurisdizione svedese dovrebbe continuare a essere applicata, ma è difficile garantire che i diritti dei detenuti vengano effettivamente rispettati in un contesto giuridico estero. La Svezia si impegna a garantire i diritti umani sanciti dagli accordi internazionali, ma resta il rischio che il controllo e la supervisione delle strutture penitenziarie estere non possano essere efficaci come nel contesto nazionale, soprattutto se non esistono meccanismi indipendenti di monitoraggio.
Le proposte legislative suggeriscono che alcuni gruppi di detenuti, come i minorenni, quelli condannati per reati connessi al terrorismo o chi è sottoposto a cure di tipo psichiatrico, non possano essere trasferiti in carceri all’estero. Ma anche sui criteri relativi alle persone detenute da trasferire ci sono molte zone d’ombra. Un altro aspetto problematico è rappresentato dalla custodia degli effetti personali delle persone trasferite, che verrebbero conservati dal sistema penitenziario in Svezia e, in linea di principio, restituite alla persona a fine pena. Infine, l’indagine commissionata dal governo svedese traccia confini pericolosi in tema di diritto dell’immigrazione, attraverso la possibilità da parte della Svezia di eseguire un ordine di espulsione o respingimento verso paesi terzi, direttamente dal carcere delocalizzato, a condizione che il paese ricevente accetti tale disposizione.
La recente proposta svedese di outsourcing penitenziario non è, purtroppo, una novità in Europa. Nel dicembre 2021 il Regno di Danimarca e la Repubblica del Kosovo avevano siglato un accordo che prevedeva, a partire dal 2023 e per 5 anni rinnovabili, l’invio di 300 detenuti precedentemente condannati e reclusi in Danimarca al carcere kosovaro di Gjilan. L’operazione avrebbe comportato il pagamento di una somma di 15 milioni di euro l’anno dopo un versamento iniziale di 5 milioni per l’adattamento dei locali. Nonostante il progetto non sia mai stato portato a termine, la World Organisation Against Torture (OMCT) — insieme ad Antigone, lo European Prison Observatory e l’International Rehabilitation Council for Torture Victims (IRCT) — aveva sottolineato i rischi di un progetto del genere, in quanto sollevava grandi preoccupazioni in materia di diritti umani. In particolare, tra gli elementi di criticità posti dall’accordo Danimarca-Kosovo, si evidenziavano la natura discriminatoria e non volontaria dei trasferimenti, la violazione del principio di risocializzazione (a più di 2000 chilometri di distanza, in un paese col quale presumibilmente non hanno alcun legame diretto, le persone detenute non avrebbero contatti con il tessuto sociale di provenienza) e la mancanza di meccanismi di protezione adeguati nel caso di abusi da parte del personale kosovaro: considerando che quest’ultimo sarebbe rimasto soggetto alla legge del Kosovo, le autorità nazionali danesi non sarebbero in grado di indagare eventuali violenze commesse, comprese le accuse di tortura, le quali rimarrebbero impunite. Inoltre, il Kosovo non ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura e il suo Protocollo Opzionale (OPCAT) e pertanto non è sottoposto a controlli regolari da parte di organismi internazionali come il Comitato contro la Tortura; non fa parte del Consiglio d’Europa, né è soggetto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
In tempi meno recenti, la pratica dell’outsourcing penitenziario era già stata sperimentata in altri paesi europei, quali il Belgio (che nel 2010 ha siglato un accordo con i Paesi Bassi per “far fronte” in via temporanea al sovraffollamento tramite l’invio di detenuti in un carcere olandese) e la Norvegia (altro accordo temporaneo in risposta al sovraffollamento, siglato nel 2015, per la messa a disposizione di un carcere olandese per persone condannate in Norvegia).
La delocalizzazione penitenziaria è un modello che rispecchia una crescente cultura dell’espulsione in Europa, da anni impegnata in una rigida esternalizzazione delle frontiere che sempre più ricorre alla deportazione di soggettività indesiderate e/o ritenute “pericolose” come mezzo propagandistico in risposta ad una indotta percezione di insicurezza sociale. Inoltre, si assiste a una preoccupante sovrapposizione delle politiche penali a quelle migratorie, nei termini di una crescente criminalizzazione delle persone migranti.
Emblematica è, in questo senso, la funzione dei centri albanesi di Shengjin e Gjader, frutto dell’accordo firmato il 6 novembre 2023 tra la presidente Meloni e il presidente albanese Edi Rama. Tali strutture erano state volute dal governo italiano per il trasferimento di persone migranti “soccorse” dalle autorità italiane in mare, per la loro successiva identificazione, per l’accertamento della loro richiesta di asilo ed, eventualmente, per il loro rimpatrio. Davanti al fallimento di tale progetto, a causa dei ripetuti interventi della magistratura che non ha convalidato i trattenimenti in Albania dei migranti deportati in applicazione del diritto comunitario e in attesa di una pronuncia della Corte di giustizia europea sulla definizione di “paese sicuro”, il governo ha inizialmente proposto una conversione dei centri albanesi in strutture penitenziarie, costituendo un piano di delocalizzazione problematico e lesivo dei diritti delle persone detenute. Abbandonata questa ipotesi, lo scorso 28 marzo il Consiglio dei ministri ha approvato il cosiddetto “decreto Albania” (Decreto-Legge 28 marzo 2025, n. 37 — Disposizioni urgenti per il contrasto dell’immigrazione irregolare), tra le cui misure è prevista la riconversione dei centri albanesi in Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr) con l’obiettivo di delocalizzare parte delle procedure di rimpatrio.
Come nel contesto italiano, anche in Svezia sembra esserci una strategia politica di flooding legislativo, inteso come pratica di inondazione continua di proposte di legge e decretazioni d’urgenza che complessificano e, talvolta, ostacolano la reazione dell’opinione pubblica e della società civile. Nel caso svedese, questo tipo di strategia politica ha messo in ombra il dibattito pubblico sulle recenti proposte di outsourcing penitenziario, come sottolinea Jenny Nguyen di Civil Rights Defenders. Sebbene inizialmente l’indagine del governo avesse attirato l’interesse dei principali media, non è chiaro quanta attenzione questo tema stia ricevendo dalla popolazione generale. C’è ancora molto lavoro da fare per sensibilizzare e far crescere il dibattito su queste tematiche. Il rischio, secondo Nguyen, è che quella dell’outsourcing “sia una tendenza che si diffonderà in molti Paesi europei e i governi europei continueranno a darsi manforte in questo sviluppo”, adottando un approccio che rafforza “una mentalità di tipo ‘lontano dagli occhi, lontano dalla mente’”[2].
[1] Prison density per 100 places: 102%, Table 16; Prison capacity and prison density, Council of Europe Annual Penal Statistics — SPACE, 31 January 2023.
[2] Il 18 marzo 2025 l’Associazione Antigone, per meglio comprendere la situazione dell’outsourcing penitenziario in Svezia, ha intervistato Jenny Nguyen, Junior Legal Advisor presso l’ONG svedese Civil Rights Defenders.
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