Il caso di Maysoon Majidi e la criminalizzazione della solidarietà

La criminalizzazione dei cosiddetti “Capitani” e delle cosiddette “Capitane” è emblematica nel caso della donna iraniana, in fuga dal regime. La sua storia ci racconta di come la ricerca di un capro espiatorio sia una delle strategie dei governi quando si tratta di immigrazione, con pene sproporzionate per gli scafisti che, spesso, in realtà non hanno nulla a che fare con le organizzazioni criminali che lucrano sulla pelle delle persone.

Associazione Antigone
8 min readNov 4, 2024

di Anna Maria Gipponi

Nel 1985, alle Giornate dei penalisti tedeschi a Francoforte, Günther Jakobs presentò il concetto di “diritto penale del nemico”. Con questa espressione, il giurista indicava un diritto penale separato, destinato a persone considerate pericolose per la società e quindi “non-cittadini”, con garanzie ridotte rispetto ai cittadini ordinari. Diversamente dal diritto penale tradizionale, che interviene dopo il reato, questo si attiva preventivamente per prevenire i pericoli. Di conseguenza, i diritti individuali vengono sospesi in una “eccezione senza limiti”, e il focus punitivo si sposta dal reato al reo, punito per ciò che è e non per ciò che ha compiuto.

E la vicenda giudiziaria di Maysoon Majidi, l’attivista, regista e reporter curdo-iraniana che è stata detenuta per più di dieci mesi in Italia con l’accusa di essere una scafista e rilasciata solamente il 23 ottobre scorso (in attesa dell’udienza finale del processo, prevista il 27 novembre), appare proprio quella di chi viene perseguito per quello che rappresenta piuttosto che per le sue azioni.

Majidi, che proprio a causa del suo attivismo in Iran è arrivata in Italia il 31 dicembre del 2023 per chiedere protezione, è stata accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ai sensi dell’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione. L’incarcerazione dell’attivista parrebbe riproporre le vicende di tanti migranti la cui presunzione di pericolosità avviene per “appartenenza identitaria”; per via, dunque, del loro stesso status e appartenenza a un gruppo sociale. Partendo dall’assunto di Blokker per cui la formula schmittiana «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione» verrebbe in questo contesto a significare: “Sovrano è chi ha il potere di proclamare legittimamente la sospensione della legge”, possiamo affermare che è lo stesso sistema penale italiano a creare quella cornice di (il)legittimità per cui è possibile incriminare chi fugge dalla persecuzione. Ciò è avvenuto con regolarità a partire dall’art. 14 del d.lgs. 286/1998, modificato nel 2004, che trasformò l’inosservanza dell’ordine di allontanamento per immigrati irregolari da contravvenzione a delitto, con pene (sproporzionate rispetto al fatto) da uno a quattro anni di reclusione, spostando il disvalore dall’atto all’autore, basandosi sulla presunta pericolosità legata allo status di “irregolari”. Anche la riforma dell’art. 61 c.p. del 2008, con l’introduzione dell’aggravante penale legata al mero fatto che l’autore del reato sia un immigrato irregolarmente presente sul territorio italiano, ha seguito tale logica punitivista.

In tempi più recenti, il c.d. “Decreto Cutro” (legge n. 50/2023, di conversione del d.l. n. 20/2023) ha introdotto sanzioni ancora più severe contro i trafficanti e gli scafisti per il reato di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, tanto da arrivare a pene fino a trent’anni nel caso di morte di più persone. Diventa in questo contesto rilevante l’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario, che disciplina il “divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti” — tra i quali figura “chiunque promuove, dirige, organizza, finanzia o, in qualunque modo, effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato”. Il dispositivo dell’articolo prevede un’unica eccezione a questa esclusione, ossia la volontà del reo a collaborare con la giustizia. Collaborazione che risulta incompatibile con la situazione di Majidi e di altri come lei — vittime degli eventi e non parte di una organizzazione criminale.

È questo quadro normativo che ha portato a prolungare la custodia cautelare in carcere di Maysoon Majidi. Da uno studio di Patané et al. del 2020 emerge che quasi ogni operazione di salvataggio di migranti in mare, in Sicilia, si conclude con l’arresto del presunto “conducente della barca” (chiamato anche “capitano”) e del c.d. “uomo bussola”, ossia l’aiutante che tiene una bussola o un dispositivo GPS durante il viaggio. Sulle imbarcazioni più grandi vengono inoltre identificati e arrestati anche altri membri dell’”equipaggio”, come coloro che distribuiscono cibo o acqua. Ed è proprio di ricoprire quest’ultimo ruolo che è stata accusata Majidi, sulla scorta di testimonianze (poi smentite in seguito dagli stessi testimoni) rilasciate subito dopo lo sbarco, senza possibilità di un controesame e senza una corretta traduzione. Secondo lo studio di Patané, è estremamente diffuso basarsi quasi esclusivamente sulle dichiarazioni, anche false, di altri migranti per identificare gli scafisti al momento dello sbarco: ciò accade perché spesso i testimoni sono convinti che agendo in tal senso, saranno agevolati nell’ottenimento del permesso di soggiorno. Tutto ciò risulta gravemente problematico alla luce del fatto che, con l’inasprirsi dell’impianto sanzionatorio del legislatore italiano nei confronti degli scafisti, i c.d. “scafisti professionisti” dei gruppi criminali che organizzano le traversate dei migranti nella tratta mediterranea sono stati sostituiti dagli “scafisti occasionali”: migranti stessi che si ritrovano a ricoprire tale ruolo in cambio del titolo gratuito della traversata fino l’Italia, oppure costretti, attraverso minacce e violenze, a timonare la barca o a svolgere ruoli di supporto.

Ma la detenzione preventiva di Majidi ci dice anche (e soprattutto) che la volontà di criminalizzazione del migrante non si manifesta esclusivamente nella definizione di politiche di controllo dei flussi, ma anche con l’inasprimento della sanzione penale: infatti, prima del proscioglimento dalle accuse, all’attivista curda sono stati negati per cinque volte gli arresti domiciliari , nonostante le gravi condizioni psicofisiche in cui versava la donna, nonostante non sussistesse il pericolo di fuga, il rischio di reiterazione del reato né tanto meno quello di manipolazione delle prove

I dati del XX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione mostrano che, sebbene gli stranieri in Italia commettano delitti meno gravi e siano destinatari di pene meno lunghe rispetto ai detenuti italiani, essi sono sovrarappresentati nella loro permanenza in carcere.Al 30 settembre 2024 le persone straniere detenute sono 19.577, su un totale di 61.862, pari al 31,65%. Secondo i dati raccolti da Antigone, non sono pochi gli istituti di pena in cui metà della popolazione penitenziaria è straniera; presso la Casa circondariale di Bolzano gli stranieri sono il 72% del totale; a Piacenza sono più del 64%; a Pavia quasi il 61%; a Verona gli stranieri rappresentano il 55% della popolazione detenuta complessiva e via discorrendo.

La situazione di esclusione del carcere per i detenuti stranieri, soprattutto quando questi possiedono un background di tipo migratorio, non si riflette solo in una ostracizzazione fisica: le possibilità di accedere a corsi e attività, a un supporto psicologico e medico, ai contatti con familiari e amici — già di per sé difficili per chi è sottoposto alla legge “ordinaria” — risultano drammaticamente ridotte, se non completamente sospese, quando si parla di chi è ristretto per reati connessi al fenomeno migratorio. Nel caso in questione, Majidi non sarebbe stata in grado di comunicare con il suo difensore e con le autorità per i primi tempi dopo il suo arresto — non essendole stati forniti adeguati servizi di interpretariato. Per protestare contro questo trattamento, l’attivista aveva iniziato uno sciopero della fame che si è protratto, a fasi alterne, fino a oggi. Lo sciopero della fame, come altre forme di protesta che coinvolgono l’ultimo baluardo a disposizione del detenuto, ossia il suo corpo, rappresenta uno strumento attivo di resistenza contro le condizioni degradanti delle carceri italiane. Nel 2023, a un mese di distanza l’uno dall’altro, sono morti due detenuti nel carcere di Augusta dopo aver avviato uno sciopero della fame. Dal 5 settembre, presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, è iniziato uno sciopero della fame a staffetta, che coinvolge 57 detenute, per porre l’attenzione sulle condizioni nelle carceri italiane, definite dalle stesse detenute “magazzini di corpi”.

Per denunciare le gravi condizioni materiali e psichiche in cui versa Majidi, Mimmo Lucano e Ilaria Salis hanno presentato un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea. Già a luglio scorso, nella Sala Stampa della Camera dei Deputati, si era tenuta una conferenza convocata da Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto, insieme ai parlamentari Laura Boldrini, Presidente del Comitato per i diritti umani della Camera, e Marco Grimaldi (Alleanza Verdi Sinistra). L’obiettivo era chiedere la libertà per Majidi e per Marjan Jamali, un’altra migrante in fuga dal regime iraniano, arrestata allo sbarco a Roccella nell’ottobre del 2023 dopo che era stata falsamente accusata di essere una scafista da tre uomini che avevano tentato di aggredirla sessualmente durante la traversata. Attualmente, Jamali si trova ai domiciliari.

Ad ampliare ulteriormente il framework legislativo sul tema dei migranti sono il d.lgs. 251/2007 e l’articolo 12 del T. U. sull’Immigrazione che, precludendo la concessione di protezione internazionale a chi è stato condannato per reati specifici, introducono una presunzione automatica di pericolosità per i migranti accusati di scafismo. Questa disposizione non solo ostacola l’accesso a forme di protezione per molti individui che possono trovarsi in situazioni di vulnerabilità, ma non distingue tra chi ha agito in circostanze attenuanti e chi ha operato come parte di un’organizzazione criminale.

Un passaggio fondamentale da sottolineare relativo al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ex art. 12 TUI è il fatto che la fattispecie non prevede, ai fini dell’incriminazione, che persista la finalità di lucro. Ciò è particolarmente rilevante se si considera che, in questo contesto, l’impianto probatorio della pubblica accusa non ha l’obbligo di dimostrare che l’imputato ha agito mosso dall’interesse per un “ingiusto profitto” (come accade invece per il reato di favoreggiamento della permanenza illegale dello straniero), rendendo bastevoli anche semplici azioni di solidarietà perché si profili l’ipotesi di reato. Proprio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina erano stati condannati in primo e secondo grado di giudizio quattro cittadini eritrei, poi prosciolti da una sentenza della Corte di Cassazione del 20 maggio 2022. Gli uomini erano stati indagati e condannati per aver offerto ospitalità e aiuto materiale a concittadini giunti da poco in Italia.

Questa impostazione giuridica ha conseguenze dirette sulle condizioni di detenzione e sulla qualità della giustizia per i migranti. La lunga detenzione cautelare di Majidi e la sua negazione di accesso agli arresti domiciliari evidenziano un sistema carcerario che, soprattutto per i migranti, si propone come ulteriore strumento di esclusione e stigmatizzazione.

Dal punto di vista vittimologico, Majidi rappresenta l’obiettivo ideale in termini di accessibilità e vulnerabilità, per via della combinazione di fattori legati al suo attivismo, alla sua condizione di donna e di migrante, al contesto socio-politico italiano che fa di lei il simbolo di alterità per antonomasia. I capi di imputazione e la custodia cautelare in carcere, basata sull’intersecarsi di direttrici di identità vulnerabilità e stigmatizzazione, appare connessa all’immagine del migrante come “nemico”, la quale si auspica possa essere in futuro decostruita, sia in ambito giudiziario che penitenziario.

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