I diritti non si fermano davanti a cancelli e muri

La relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà

Associazione Antigone
4 min readJun 27, 2022

di Francesca Biondi

Il 20 giugno 2022 è stata presentata la relazione al Parlamento 2022 del Garante nazionale delle persone private della libertà. L’ufficio del Garante è un organo collegiale che rappresenta un’Autorità di garanzia indipendente con il compito di vigilare sul rispetto e la tutela dei diritti delle persone private della libertà in diversi ambiti e contesti.

La relazione di quest’anno si concentra in particolare su due aspetti: da una parte una panoramica attuale della libertà negata — in carcere, nei centri per migranti, nei luoghi di cura o assistenza — e delle criticità incontrate da tutti coloro che abitano tali luoghi; dall’altra, uno sguardo prospettico che il Garante offre in vista di una coesistenza di valori apparentemente confliggenti: la sicurezza individuale e collettiva da un lato e la vicinanza non solo simbolica a coloro che, per motivi diversi, stanno vivendo un periodo di privazione della propria libertà.

Nell’ambito carcerario, le problematiche evidenziate sono in primo luogo quelle legate al numero di suicidi, 29 dall’inizio del 2022, e agli atti di autolesionismo — che rappresentano una tragica realtà del sistema penitenziario italiano.

Ulteriori criticità sono quelle relative alla negazione del diritto all’affettività, ai casi di ingiusta detenzione, ma anche alla durata eccessiva dei processi. Proprio il tempo è stato scelto come fil rouge della relazione che, nelle parole del Garante, “acquista una particolare fisionomia nel contesto della privazione della libertà”. Tempo dell’inizio — momento in cui il reato è stato compiuto -, tempo riconfigurato, dilatato, ripetitivo e, infine, tempo sottratto alla vita, perché di difficile misurazione sia in termini proiettivi, sia rispetto alla significatività del suo svolgersi. Ma il tempo della pena non può essere un tempo vuoto nel quale il diritto al riconoscimento della propria dignità e integrità fisica e psichica rimane sospeso o peggio annullato.

Il delicato momento storico che stiamo vivendo, tra rischio di contagio pandemico e irruzione di una guerra a noi territorialmente vicina, spingono in direzione di un mutamento del linguaggio, che acquista una connotazione sempre più divisiva, e delle modalità di confronto con la difficoltà. La guerra non ricompone le fratture e questo si riflette tanto nella società quanto nei luoghi di privazione della libertà. Proprio per questo, appare più che mai necessario ritrovare uno sguardo “normale”, lucido e radicato nel principio di solidarietà dell’agire democratico.

L’area della detenzione minorile, ad oggi, sembra l’unica a far vivere concretamente la misura privativa della libertà come extrema ratio (al momento i giovani detenuti in IPM sono 358), prediligendo misure come quella della messa alla prova (attualmente 3.001) o altre modalità alternative di scontare la pena (ad oggi 784). Nonostante questo, si continuano a registrare segnali poco rassicuranti rispetto alla crescita del numero di minorenni autori di reati compiuti collettivamente — soprattutto in aree territoriali del Nord — la cui rilevanza richiede misure restrittive. Alla luce della carenza dei posti disponibili, il rischio è quello di ricorrere a spostamenti in istituti geograficamente distanti dalla famiglia e dal contesto territoriale di riferimento.

Per quanto riguarda, invece, il sistema di detenzione adulta — come accennato sopra — un dato preoccupante riguarda l’elevato numero di eventi critici (suicidio, autolesionismo…), complice anche l’insufficienza e la frammentarietà del supporto psicologico e psichiatrico, che pone degli interrogativi sull’intrinseca fragilità che tali avvenimenti comunicano e sulle azioni necessarie per rispondere a questa fragilità.

L’analisi della situazione carceraria impone alcune riflessioni in particolare: in primo luogo l’ancora irrisolto problema del sovraffollamento, l’accentuazione della presenza in carcere di persone con sentenze di condanna a meno di un anno — una presenza che parla di povertà materiale e relazionale che altri sistemi di regolazione sociale avrebbero dovuto intercettare ben prima del diritto penale — in ultimo luogo, la responsabilità esterna, ovvero del territorio che “finisce con affidare al carcere le proprie contraddizioni determinando quella detenzione sociale che il carcere non può risolvere”.

Un altro tema oggetto delle riflessioni del Garante è la salute mentale, in particolare i lunghi tempi di attesa per la presa in carico di persone con problemi di salute mentale da parte delle “Residenze per le misure di sicurezza” (REMS). Nella relazione si sottolineano, infatti, la necessità e l’urgenza di avviare una discussione sugli interventi da realizzare in risposta a tale situazione, senza che questo significhi demandare la presa in carico di questa particolare popolazione esclusivamente alle REMS.

La necessità di una ragionevolezza dei tempi deriva dall’evidenza che il carcere si presenti troppo spesso come luogo di attese: ridurre il tempo che intercorre tra la commissione di un reato e il percorso che di conseguenza si deve intraprendere, significa veramente porre al centro la rieducazione e il reinserimento sociale della persona privata della libertà.

Infine, in linea con il dettato dell’art. 27 della Costituzione, un’attenzione particolare deve essere posta al mantenimento e all’attuazione di quel principio delle Regole penitenziarie europee che stabilisce che il periodo di privazione della libertà debba essere il più simile possibile alle condizioni di vita all’esterno, soprattutto per quanto riguarda il mantenimento degli affetti e la possibilità di viverli compiutamente, all’offerta di istruzione e formazione e al recupero del rapporto con il proprio corpo.

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