Decreto sicurezza bis: non si può usare il diritto penale per criminalizzare il dissenso e la solidarietà

Domani, 3 luglio, saremo in audizione alla Camera dei Deputati nell’ambito dei lavori per la conversione in legge del Decreto Sicurezza bis. Questo che trovate di seguito è il documento che abbiamo inviato ai Parlamentari che fanno parte delle commissioni preposte.

Associazione Antigone
6 min readJul 2, 2019

Il disegno di legge C.1913 che provvede alla “Conversione in legge del decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53, recante disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica” si muove all’interno di un solco già segnato da recenti precedenti provvedimenti legislativi che affrontano il tema della sicurezza e dell’immigrazione in modo manicheo, semplificato , producendo un’ulteriore compressione dei diritti e delle garanzie all’interno del nostro ordinamento giuridico.

Il sistema giuridico nella sua complessità, e i diritti per loro intrinseca natura, non possono essere continuamente intaccati sulla base di presunte ed indimostrate emergenze criminali e sociali. Così come il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha scritto poco tempo addietro in una pubblicazione in onore di Guido Alpa, criterio ultimo e determinante di ogni ricerca giuridica, e dunque della stessa produzione normativa, non può non essere ‘la centralità della persona’. Un rispetto dell’altro che il disegno di legge in questione mette fortemente in discussione e che ci auguriamo il Parlamento non voglia avallare in nessun modo.

Le preoccupazioni che solleviamo sono condivise da buona parte della comunità degli studiosi e degli operatori impegnati sul terreno dei diritti costituzionali.

In primo luogo ci soffermiamo sui un punto che non è derubricabile a mera questione di forma. Anche in questo decreto è evidente la carenza dei presupposti per il ricorso alla decretazione d’urgenza sia nella parte relativa all’immigrazione che in quella relativa all’ambito penale. Il Governo attraverso i suoi Ministri si è non poche volte vantato dei risultati raggiunti in termini di ridotto flusso di migranti e di calo degli indici di delittuosità. Dati confermati anche nelle relazioni ufficiali degli organismi di Polizia. Mancano clamorosamente, dunque, quei criteri di straordinarietà ed urgenza che giustificano l’adozione di un decreto-legge. Inoltre sono evidenti i difetti di omogeneità del decreto-legge, criterio che la Corte Costituzionale ha ritenuto necessario per affermare la legittimità della decretazione di urgenza. Nel decreto in esame si giustappongono norme in materia di immigrazione, norme in materia penale che criminalizzano il dissenso, norme che cambiano l’organizzazione interna allo Stato, norme che sottraggono competenze ai ministeri della Giustizia e dei Trasporti per affidarle pretestuosamente e pericolosamente al ministero dell’Interno, norme che riguardano le prossime Universiadi. Si tratta di disomogeneità tali da mettere a rischio la costituzionalità del decreto, anche alla luce dei precedenti giurisprudenziali, ed in particolare della sentenza n.32 del 2014, in materia di droghe.

Venendo ai contenuti del decreto-legge ci soffermiamo solo su alcune delle norme in esso presenti.

La norma che modifica il Testo Unico sull’immigrazione, introducendo l’illecito amministrativo del trasporto irregolare di migranti in acque internazionali, stride con quella cultura del rispetto della persona in difficoltà che caratterizza il diritto internazionale del mare. I primi due articoli del decreto sicurezza-bis colpiscono chi risponde all’obbligo di soccorso (cd adempimento di un dovere) prevedendo sanzioni amministrative per comportamenti coerenti con l’ordinamento giuridico internazionale e con i principi costituzionali, in nome di non meglio definiti motivi di ordine pubblico. Il ministro, come abbiamo visto nel caso della Sea Watch 3, può oggi vietare l’ingresso dichiarando che quella nave sta contribuendo alla commissione del reato di favoreggiamento immigrazione clandestina, senza tener conto del diritto dei naufraghi a poter chiedere asilo e a evitare il respingimento, ad es., in Libia, luogo dove il rischio di essere sottoposto a tortura è certificato dalle organizzazioni inter-governative. Inoltre le norme non tengono conto di come il capitano della nave sia obbligato al salvataggio in mare. Il sequestro della stessa nonché le pesanti sanzioni economiche (fino a 50mila euro) previste dall’art. 2 configurano il rischio di violazione del principio del ne bis in idem, in quanto si tratta di sanzioni amministrative pesanti che si aggiungono al procedimento penale per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Inoltre la casistica giudiziaria evidenzia come in casi di questo genere, salvo non sia dimostrato un nesso criminale, operino ragionevolmente le scriminanti previste all’interno del codice penale, ossia lo stato di necessità, e finanche la legittima difesa. Sia l’art. 98 della Convenzione di Montego Bay che l’art. 10 della Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio marittimo prevedono che il comandante della nave abbia l’obbligo di salvare le persone in pericolo e di condurle, senza esporli ad ulteriori rischi, presso un porto sicuro, ossia dove non ci sia il rischio di essere sottoposti a trattamenti inumani, crudeli o degradanti o a tortura. Sempre in tema di immigrazione la previsione del trasferimento delle competenze interdittive del Codice della Navigazione dal Ministro delle Infrastrutture al Ministro dell’Interno, producono un ingiustificato accentramento di poteri in capo al ministero dell’Interno. Va ricordato che proprio su questo terreno, lo scorso 19 giugno 2019, la Corte Costituzionale ha censurato l’accentramento in capo al Ministero dell’Interno di poteri spettanti agli enti locali in tema di Daspo, in considerazione dei rischi istituzionali di una eccessiva concentrazione di poteri. L’attribuzione di competenze al Ministero dell’Interno, anziché al Ministero delle Infrastrutture e trasporti, del potere di limitare o vietare il transito o la sosta di imbarcazioni determina una degenerazione di tutto ciò che accade nello spazio marittimo in questione di ordine pubblico.

Un’immagine della manifestazione dei lavoratori dell’Alcoa contro la chiusura dello stabilimento

Le norme in materia penale e di polizia si caratterizzano per un tratto comune, ossia una forma ulteriore di criminalizzazione del dissenso che non è giustificabile con la necessità di garantire manifestazioni pacifiche. Si tratta dunque di norme in materia di manifestazioni pubbliche che prevedono aumenti di pena o nuove circostanze aggravanti, andando addirittura a irrigidire il testo unico di Polizia del 1931 di epoca fascista.

Anche qui l’urgenza e la straordinarietà delle norme non trovano legittimazione alla luce di quanto accaduto nell’ultimo anno. Il paese non è minimamente attraversato da conflitti violenti che legittimano nuove norme repressive nei confronti di chi protesta in piazza. Le norme si palesano invece come un ulteriore arretramento culturale sul tema delle garanzie costituendo una svolta repressiva pericolosa e ingiustificata.

Si assiste a un irrigidimento di pene e sanzioni che rompono il principio di proporzionalità che dovrebbe governare il sistema penale. Il fine ultimo sembra proprio quello della criminalizzazione del dissenso.

L’inasprimento all’articolo 6 delle pene previste (l’arresto passa dalla cornice “da uno a due anni” a quella “da due a tre anni”; l’ammenda, che continua ad applicarsi congiuntamente all’arresto, passa dalla cornice “da 1000 a 2000 euro” a quella “da 2000 a 6000 euro) dalla c.d. legge Reale per chi utilizza caschi protettivi o qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in occasione di manifestazioni (l. n. 152/1975, art. 5, secondo periodo) stride con l’impossibilità di identificare chi svolge funzioni di ordine pubblico. Si crea una disparità di trattamento, assicurando per chi lavora nelle forze dell’ordine una sorta di immunità penale di fatto.

L’insieme delle disposizioni mette dunque in discussione il principio di ragionevolezza e proporzionalità più volte sancito dalla Corte Costituzionale.

Infine le norme in materia sportiva, oltre a trattare le manifestazioni sportive come un fatto di solo ordine pubblico, codificano in modo permanente un istituto giuridico, ossia la flagranza differita, che è del tutto privo di senso e ragionevolezza. La sostenibilità costituzionale di una norma irragionevole era solo nel suo essere provvisoria nel tempo.

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