Affettività e sessualità in carcere: i tribunali ricordano allo Stato che è un diritto da garantire
Nel gennaio 2024 la Corte costituzionale aveva stabilito che i diritti all’affettività e alla sessualità non si perdono con la detenzione. Lo Stato avrebbe dovuto intervenire per garantire, nelle carceri, luoghi adatti per incontri intimi. Più di dodici mesi dopo nulla è accaduto. Ma nelle ultime settimane già tre Tribunali hanno accolto altrettanti ricorsi di persone detenute. E lo Stato non può continuare ad ignorare la situazione.
di Annamaria Gipponi

Sono tre le recenti decisioni della magistratura di sorveglianza che, a distanza di un anno dalla sentenza n. 10 del 2024 della Corte costituzionale, hanno riaffermato il diritto delle persone detenute a colloqui intimi con i propri partner. Le pronunce, provenienti dai tribunali di sorveglianza di Parma, Spoleto e Verona, rappresentano un ulteriore monito alle istituzioni affinché venga garantita piena attuazione a un diritto che la Consulta ha già riconosciuto, ma che nei fatti continua a essere disatteso.
Le ordinanze hanno accolto i reclami ex art. 35 bis O.p. presentati da detenuti che chiedevano il riconoscimento della propria sfera affettiva e sessuale, stabilendo che la mancanza di spazi idonei all’interno delle carceri costituisce una violazione della dignità della persona. In particolare, a Terni, un detenuto in regime di Alta Sicurezza ha ottenuto il riconoscimento del diritto a colloqui intimi con la moglie, con l’obbligo per l’amministrazione carceraria di predisporre gli spazi adeguati entro 60 giorni, nonostante il ricorso del DAP. Parimenti, a Parma, un altro recluso ha visto accolta la sua richiesta di colloqui riservati con la moglie. Ed è ancora più recente la decisione del Magistrato di Sorveglianza di Verona che ha accolto la richiesta di spazi di intimità di un detenuto, definendo la limitazione del diritto all’affettività in carcere come una “pena accessoria anacronistica”. Tali decisioni hanno richiamato l’Amministrazione Penitenziaria alla necessità di garantire il diritto all’affettività, superando l’inerzia normativa e organizzativa del sistema carcerario, e ponendo indiscutibilmente l’accento sul silenzio delle istituzioni sul tema dell’intimità sessuale nelle carceri.
La sentenza della Consulta, poco più di un anno fa, aveva dichiarato incostituzionale l’art. 18 dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui vieta ai detenuti di avere colloqui senza controllo visivo con il partner, salvo esigenze di sicurezza, riconoscendo inoltre che tale limitazione incidesse sulla sfera familiare e sulla possibilità di avere rapporti intimi di natura sessuale.
Eppure, ad oggi, in Italia non è ancora stato effettuato alcun colloquio privato tra detenuti e partner liberi. Commentando la pronuncia, Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, aveva correttamente profetizzato che, a fronte di: «un’amministrazione prevedibilmente riottosa o titubante» sulla questione in esame, sarebbe stata proprio la magistratura di sorveglianza a fungere da bussola nel tragitto segnato costituzionalmente. Le tre sentenze di Parma, Spoleto e Verona arrivano proprio a conferma di tale intuizione.
Il ricorso giurisdizionale ex art. 35-bis O.p. permette ai detenuti di contestare: “[…] l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti”.1 La magistratura di sorveglianza ha quindi facoltà di esprimersi, accogliendo o rigettando il reclamo, circa il sussistere e il persistere di trattamenti inumani e degradanti in carcere. Le ordinanze sopra citate hanno riconosciuto il diritto dei detenuti a relazioni affettive più intime, sostenendo che la mancanza di spazi adeguati rappresentasse una lesione alla dignità degli individui.
L’inerzia volitiva delle istituzioni è emersa con chiarezza nel caso della Casa di Reclusione di Padova, risalente a febbraio 2024. In quell’occasione, fu annunciato che presso l’istituto penitenziario “Due Palazzi” sarebbe partita la sperimentazione delle cosiddette “stanze dell’amore”, spazi dedicati agli incontri intimi tra detenuti e i loro partner. L’iniziativa, promossa da Ristretti Orizzonti in collaborazione con la direzione dell’Amministrazione penitenziaria padovana, sembrava avviata, ma, a poche ore dalla diffusione della notizia, il Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, dichiarò che non esisteva alcuna autorizzazione specifica per simili iniziative, né a Padova né in altri istituti italiani. Annunciò inoltre l’istituzione di un tavolo di lavoro per “approfondire la questione”. Da allora, però, non si è più avuto alcun aggiornamento sul progetto.
Sebbene la sospensione dell’iniziativa possa apparire legata a un cavillo tecnico — ossia la mancata approvazione formale da parte del Ministero della Giustizia — di fatto tale autorizzazione non sarebbe necessaria. Il progetto aveva già ottenuto il via libera del direttore del “Due Palazzi” e, per il finanziamento, si sarebbe potuto fare affidamento sulla Cassa Ammende.
La situazione che va delineandosi è particolarmente intricata, se si pensa che la sessualità è l’unico aspetto della vita detentiva a non essere in alcun modo disciplinato, né da norme né da regolamenti interni. Le uniche modalità quindi che rimangono al detenuto per avere rapporti sessuali con il/la partner sono la possibilità di usufruire di permessi premio (ex art. 30 ter o.p.) e quella di accedere a misure alternative. Questa inerzia del legislatore nel colmare una così evidente zona grigia sarebbe, nelle parole di Pugiotto2, un operante dispositivo proibizionista: l’omissione, infatti, non è casuale, e non è neppure una semplice negazione; rappresenta, lungi dall’ignorarlo, una forma di proibizione attiva, che impedisce e reprime questo diritto. La restrizione all’esercizio della sessualità all’interno degli istituti di detenzione determina una compressione della libertà personale del detenuto in misura eccedente rispetto alle esigenze connesse alla privazione della libertà, con conseguente violazione dell’art. 13, comma 1, Cost., che tutela la libera disponibilità del proprio corpo. La giurisprudenza costituzionale, anche prima della sentenza del 2024, ha più volte affermato che la detenzione, pur comportando una limitazione della libertà personale, non può e non deve annullare del tutto la sfera di autodeterminazione del soggetto recluso, il quale conserva un residuo di libertà che deve essere garantito compatibilmente con le esigenze di sicurezza e di organizzazione dell’istituto penitenziario. Con la sentenza n. 301 del 2012, la Corte costituzionale ha escluso che il diritto alla sessualità sia incompatibile con lo status detentivo, affermando che esso rientra tra le posizioni soggettive tutelate dall’ordinamento.
La privazione della possibilità di esercitare la sessualità nell’ambito della detenzione si configurerebbe, altresì, come una lesione della dignità personale del detenuto, in violazione dell’art. 2 Cost., atteso che la corporeità costituisce un elemento imprescindibile dell’identità individuale. La Corte costituzionale ha ribadito che il diritto all’affettività, di cui la dimensione sessuale rappresenta un elemento essenziale, rientra tra i diritti inviolabili della persona.
L’incidenza di tale restrizione si estenderebbe, inoltre, alla tutela della salute del detenuto, garantita dall’art. 32 Cost. secondo un’accezione ampia che non si limita all’assenza di malattia, ma comprende il benessere psico-fisico dell’individuo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità e la giurisprudenza costituzionale e di legittimità hanno riconosciuto che la salute deve essere intesa come uno stato complessivo di equilibrio, il cui mantenimento può risultare compromesso da condizioni di privazione forzata della sessualità, con possibili ripercussioni sul piano psicologico e relazionale.
La negazione dell’esercizio della sessualità con il proprio partner incide, inoltre, sul principio di finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.), pietra angolare del sistema detentivo italiano. Se la pena, per essere conforme ai principi costituzionali, non può consistere in una mera afflizione e deve quindi tendere al reinserimento sociale del condannato, tale obiettivo virtuoso viene compromesso dall’imposizione di una condizione di astinenza forzata, di carattere meramente afflittivo.
La privazione della dimensione sessuale all’interno degli istituti penitenziari impone una riflessione sul fenomeno dell’“a-sessualizzazione” forzata del detenuto, il quale viene assimilato a una condizione di minorità che si traduce in una sostanziale negazione della sua autodeterminazione. Manconi e Torrente (2015) evidenziano come le istituzioni che impongono un’interdizione sessuale indipendentemente dall’età biologica siano essenzialmente due: da un lato, i luoghi di detenzione, trattamento e ricovero coatto; dall’altro, gli istituti religiosi in cui la rinuncia a una parte della propria libertà costituisce un atto volontario di donazione del sé. La distinzione è rilevante, poiché nel contesto carcerario l’imposizione di tale privazione non deriva da una scelta individuale, bensì da una regolamentazione implicita che esclude la sessualità dai diritti riconosciuti alla persona detenuta. Tale esclusione si fonda su un paradigma che assimila il detenuto al minore d’età, ponendolo in una condizione di presunta incapacità di autodeterminazione analoga a quella di chi è ritenuto “incapace di intendere e di volere”.
In questa prospettiva, il carcere si configura come un’“istituzione totale” nel senso goffmaniano del termine: un luogo che non solo disciplina e controlla il soggetto recluso, ma ne regola integralmente l’esistenza, legittimando la privazione della sfera sessuale come misura di protezione del detenuto stesso. Questo meccanismo raggiunge il suo culmine nel regime speciale di cui all’art. 41-bis ord. penit., il quale prevede, tra le altre restrizioni, la drastica limitazione dei colloqui con i familiari, con il divieto di contatto fisico ad eccezione di un breve lasso di tempo con figli e nipoti in linea retta. La conseguente totale dipendenza del detenuto dall’istituzione accentua il processo di infantilizzazione, confermando un modello di detenzione che esclude la sessualità dalla dimensione della persona reclusa e ne consolida la condizione di soggetto sottoposto a tutela.
Se alla riflessione sul diritto si volesse unire uno spunto preso in prestito dalle scienze sociali, si noterebbe che, alla luce della teoria di Blumer sull’interazionismo simbolico, gli individui agiscono nei confronti delle realtà sociali sulla base dei significati che emergono dall’interazione con gli altri. L’assenza di una narrazione esplicita della sessualità nel contesto detentivo si traduce in una sua rimozione simbolica, che giustifica e rafforza la desessualizzazione dell’universo intramurario e la conseguente infantilizzazione del detenuto. Questa dinamica non si esaurisce nella sfera intima, ma investe anche il linguaggio penitenziario, nel quale si riscontrano termini quali spesino, scopino, porta vitto e lavorante, che, come osservato da Sette, contribuiscono alla costruzione di una realtà lessicale infantilizzante. Esprimendosi su questo punto, i componenti del Tavolo 2 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale hanno proposto l’eliminazione di tali espressioni dagli atti amministrativi e dagli scambi orali.
A delineare i confini di una situazione particolarmente critica non è soltanto la terminologia utilizzata, ma l’assenza stessa di un discorso sulla sessualità in carcere. Gonin3 sottolinea come il contesto carcerario si contraddistingua per un silenzio sistematico sulla sessualità, al punto che qualsiasi espressione della dimensione sessuale emerge soltanto nelle sue manifestazioni patologiche o devianti, come violenze o abusi.
Se, come sostiene Bortolato, spetta al legislatore e all’esecutivo — e non alla magistratura di sorveglianza — delineare un quadro normativo uniforme, sottraendolo alla frammentarietà di interventi giurisprudenziali contingenti, è altrettanto vero che l’attuale Governo potrebbe già disporre (forse senza saperlo) di strumenti idonei a tale finalità.
Nel settembre dello scorso anno, infatti, il Governo Meloni ha nominato un nuovo Commissario Straordinario per l’edilizia penitenziaria, assegnandogli un fondo di 250 milioni di euro. Sebbene l’incremento del numero di celle o l’ampliamento delle strutture detentive non abbiano mai rappresentato una soluzione efficace per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti — come più volte evidenziato da Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone — tali risorse potrebbero rivelarsi utili nell’ottica di un’attuazione concreta delle ordinanze sull’affettività e la sessualità intramuraria emesse dagli uffici di sorveglianza di Spoleto, Parma e Verona.
Dal momento che le amministrazioni penitenziarie delle province dispongono di un termine di 60 giorni per individuare locali idonei a ospitare colloqui intimi tra i detenuti ricorrenti e i loro partner, i fondi licenziati dal Sottosegretario Mantovano a favore del Commissario Straordinario Doglio potrebbero costituire un’opportunità per dare attuazione a tali innovazioni, contribuendo così a un’evoluzione del sistema penitenziario in linea con le recenti pronunce giurisprudenziali.
Per quanto le recenti ordinanze degli uffici di sorveglianza segnino un primo passo nella direzione del riconoscimento di un diritto fondamentale, queste non possono sostituirsi a un intervento normativo organico e strutturato. L’assenza di un quadro regolamentare chiaro continua a relegare la sessualità del detenuto in un limbo, vittima della discrezionalità delle amministrazioni penitenziarie. Se davvero il sistema penitenziario vuole allinearsi ai principi costituzionali e ai più avanzati orientamenti internazionali, il legislatore dovrà finalmente assumersi la responsabilità di colmare questo vuoto normativo, restituendo al detenuto una dimensione essenziale della sua dignità e autodeterminazione.
1 Art. 69, comma 6, lett. b), legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento Penitenziario).
2 Professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Ferrara.
3 Medico penitenziario francese
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